Las Pezia, Black economy
di William Domenichini
Se dalla green economy si sta passando velocemente alla blue economy, c'è da
attendersi che nel giro di pochi anni si copra tutto lo spettro luminoso, una
sorta di arcobaleno nel quale gli slogan tendono ad assumere sempre di più lo
spazio delle proposte e dei progetti innovativi.
La Spezia sembra un caso paradigmatico per
molti conflitti tra ambiente, salute, ed occupazione, un paradigma dove
sostanzialmente i tre elementi citati sono messi in secondo piano rispetto ai
ricavi che derivano da produzioni nocive. Un teorema che ormai si è trasformato
in postulato: privatizzare i ricavi, socializzare le perdite, soprattutto
quando nel termine perdite si annoverano le spese sociali per il sostegno dei danni
ambientali e di salute che certi impianti potrebbero cagionare. Sorvolando il
golfo dei poeti (e dintorni), non manca proprio nulla. Una centrale elettrica a
carbone, un rigassificatore, un porto commerciale, il tutto legato da una
mobilità che appare la riproposizione del moto browniano. Ma andiamo con
ordine.
Energia alla Spezia significa ENEL, un impianto enorme,
partito da 1800 MW di potenza installata, arrivati oggi a 1200 (di cui 640 a
gas pressoché inutilizzati, il resto, neanche a dirlo, ancora a carbone), ed
una storia di una provincia, dei suoi lavoratori nel ventre caldo delle sue
caldaie, dei suoi abitanti anneriti dalle sue ceneri. Così le emissioni
dell'unica ciminiera rimasta della “Eugenio Montale”; è uno dei simboli dell'ennesimo ricatto salute/lavoro, il tradimento
democratico di un referendum dimenticato che sanciva il no di una città.
Ciminiere, bastano pochi sbuffi d’emissioni, penduli da un’Autorizzazione
Integrata Ambientale (AIA), sul delirio del mare. Oltraggio per oltraggio, alla
centrale viene consentito l’uso del carbone per altri 8 anni. Il sindaco
spezzino Federici, invece di rilasciare, nel pieno della sua autorità
sanitaria, un parere sanitario prescrittivo a tutela della salute pubblica,
recepibile in Conferenza dei Servizi, esultava, forse pensando al via libera ad
un nuovo polo commerciale nelle aree limitrofe all’ENEL, previsto nel piano
generale di sviluppo 2013-2017. Ma che il sindaco e l’amministrazione, in tema
energetico, avessero le idee confuse è dimostrato dal fatto che ritenessero un
risultato la riduzione del 14% delle emissioni entro il 2020, quando la
direttiva si chiama 20-20-20 (non 20-14-20).
C'erano i presupposti per “battere i pugni sul tavolo”? Per molti, sì, tuttavia
gli interessi di ENEL sembrano eludere quelli del territorio: nessun
riconoscimento del luogo in cui sorge la centrale, in una città e nel cuore di
una provincia, nessuna valutazione delle alternative, nessuna applicazione
delle Migliori Tecnologie Disponibili, monitoraggi non adeguati e nessuna
indagine epidemiologica sulle incidenze sanitarie dell'impianto, in un
territorio col record di incidenze tumorali. Senza contare il programma di
governo dell’ex sindaco della Spezia: “l’obiettivo della dismissione del sito
(centrale ENEL) potrebbe aprire nuove prospettive strategiche di utilizzo del
territorio e di conversione dell’economia cittadina: diventa allora importante
perseguire quest'obiettivo per il futuro prossimo, plausibilmente entro il
2015”. Come a dire che in campagna elettorale si può tutto e di più. La cena
delle beffe non declina la poeticità del golfo, ma partorisce che la centrale
chiuderà. Lo dicono i vertici ENEL, lasciando da un lato altri 8 anni di
emissioni, dall'altro il mistero del destino delle aree della centrale.
Se qualcuno pensasse che il tema gattopardesco non riguardi la città del golfo
dei poeti, si sbaglia di grosso. Così cambia tutto, ma non cambia nulla anche
sulle rive spezzine. La palla passa a Pierluigi Peracchini, espressione del
centrodestra spezzino e dintorni, che succede al governo della città. Il tema
ENEL muta la sua declinazione dalla dismissione alla riconversione, dal carbone
al gas, contornato da una proterva sequela di scaricabarile. “Hic ENEL, hic
salta”, se volessimo scomodare i classici, ma il primo cittadino si divincola
come un abile condor dell'area di rigore, cercando di evitare attentamente
l'espressione e la pratica delle sue prerogative, con un populistico rumore di
sottofondo: chi chiede la dismissione della centrale non ha mai mosso un dito
in questi anni, pretendete che lo faccia io?
Ora se la questione energetica nella nostra città fosse semplificabile alla
sola centrale ENEL, potremmo dire di essere a cavallo, ammesso che si trovi un
sindaco in grado di assumersi
1. le sue responsabilità,
2. di avere il coraggio di guardare ai
prossimi 30 anni.
E invece alla Spezia, come del resto in
tante altre parti di questo piccolo pianeta, il diavolo fa le pentole, ma non i
coperchi.
Energia alla Spezia significa portualità. Al netto delle dicerie sulla sua
centralità dei traffici internazionali di rifiuti, appare del tutto evidente
che, in termini di emissioni, il porto commerciale, privo sostanzialmente di
elettrificazione delle banchine, senza nessuna fascia di rispetto con il resto
del tessuto urbano, con un traffico di mezzi pesanti costante tra le banchine e
l’area retro portuale, sia un punto nevralgico dello status horribilis della
città. Senza contare che, ad oggi, la gestione del porto spezzino è avvenuta in
modalità del tutto avulse da rituali democratici, dalla concessione
monopolistica ultra cinquantennale alla sostanziale inosservanza del piano
portuale. Qualcuno direbbe: Mica si vorrà addossare questa questione al povero
Peracchini? Sia mai, in fondo lui, o un suo delegato CISL, facevano parte del
comitato portuale dove si sono discussi ed assunte le scelte sulla gestione
dell'infrastruttura.
Energia alla Spezia significa rigassificazione. Una spada di Damocle
incastonata in una delle baie più belle della costa di ponente, un impianto
discusso per la sua pericolosità e le possibili conseguenze che potrebbe avere
in un contesto delicato e fragile, ma di cui costantemente viene paventata la
triplicazione. Panigaglia è, ai più, noto come il
cantiere di “San Bidonetto”, perla dei ruggenti anni dello sviluppo economico
del paese, miraggio di 500/600 posti di lavoro ma che nei fatti ne conta a
malapena un centinaio, indotto incluso. Mente umana ha pensato ad un impianto
ad elevata pericolosità in un contesto in cui l'unica via d'accesso è una
strada costruita da Napoleone? I posteri possono bissare gli errori degli avi
immaginando di intasare il golfo di bettoline cariche di LNG.
Che
fare? Parlare di un processo culturale che impone come orizzonte una
riconversione economica di certi impianti e certe infrastrutture sembra oltre
l’utopia. Da un lato chi ha amministrato la città (e i dintorni) negli ultimi
decenni non ha percepito fino in fondo le potenzialità che si potrebbero
esprimere, dall'altro chi ne ha raccolto il testimone dopo roboanti promesse di
cambiamento ha infranto i propri intenti (e i patti morali che li sostanziavano
elettoralmente) con un modus operandi che coniuga pressapochismo e ignavia.
In un luogo paradigmatico come La Spezia non c'è spazio per nuovi orizzonti che
coniughino il rispetto per la salubrità del nostro ambiente e il diritto al
lavoro? Quante malattie e decessi sono costati ai cittadini? E quanti posti di
lavoro garantirebbe una riconversione economica? Per rispondere a queste
domande occorrerebbe lanciare un processo partecipativo reale, concreto, che
coinvolga cittadini, parti sociali ed attori economici, ripensando ad un piano
strutturale che rivolti la città nei suoi rapporti con ciò che produce e che
crea, l’unica speranza di uscire dal tunnel della black economy, quella tinta
del nero che sbuffa dalla ciminiera ENEL, dalle caldaie delle navi ormeggiate
ai dock o che transitano nel golfo che era dei poeti.
William Domenichini
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