In zona rossa
Due mesi di lavoro nella Terapia Intensiva dell’ospedale della Fiera di Bergamo
Daniela
De Serio
Emergency
Data
ammissione primo paziente: 7 aprile 2020
Data
conclusione delle attività: 26 maggio
5.855
procedure di vestizione-svestizione
12
letti di terapia intensiva gestiti da Emergency
“Quando
a fine marzo sono arrivata a Bergamo, la Fiera era ancora un gigantesco
capannone con soffitti altissimi. Il via vai dei volontari dell’ANA –
Associazione Nazionale Alpini -, della Confartigianato, del personale del Papa
Giovanni XXIII e dei nostri logisti e tecnici faceva capire che quella
struttura sarebbe velocemente diventata parte della risposta di Bergamo all’epidemia
che si era abbattuta sulla città e sulla sua provincia.
Veder
crescere il presidio medico in dieci giorni è stata una grande iniezione di
fiducia e difficilmente ci avrei creduto se non lo avessi visto con i miei
occhi: chi sapeva tirar su un muro ha tirato su un muro, chi sapeva installare
l’impianto elettrico si è occupato di tirare i fili, chi faceva l’idraulico era
alle prese con i tubi.
Con
il passare dei giorni ho scoperto che tanti volontari avevano perso un
familiare o un amico, e quel muro, quel filo elettrico, quel tubo erano una
risposta concreta, pratica, reale a quello che avevano vissuto. Marco, l’autista
che ci riaccompagnava in albergo salutandoci sempre con un “buonanotte ragazzi,
e grazie”, ci raccontò di quella notte in cui il paese era stato ininterrottamente
attraversato da ambulanze.
Poi
è arrivato il 7 aprile e la porta che normalmente usavamo per entrare all’interno
della fiera è stata chiusa a chiave: un adesivo con il simbolo del divieto d’accesso
e la scritta “Zona rossa-Red Zone” hanno decretato l’avvenuta trasformazione
della fiera in un presidio medico. Poco dopo le ambulanze hanno iniziato ad
arrivare e hanno portato A., C., poi M. e G. I nostri primi pazienti. A quel
punto tutta la macchina si è messa in moto.
E’
bastato poco per rendersi conto che la comunicazione con i pazienti – quelli svegli
e coscienti – era più complicata del solito. A causa dei dispositivi di
protezione che ci rivestivano, i pazienti potevano vedere solo i nostri occhi –
in realtà, a causa della visiera e degli occhiali protettivi, anche vedere gli
occhi non era immediato. Non potevano vedere i sorrisi o le espressioni che
avevamo quando ci avvicinavamo, quando comunicavamo buone notizie. Allora
abbiamo iniziato a parlare con loro più spesso, per ogni cosa. Ricordo che un
giorno ho sentito Milosh, Sasha e Dejan, i nostri colleghi serbi, chiedere a
uno dei nostri pazienti se voleva fare la barba in un bellissimo italiano
stentato. In questa richiesta, fatta in una lingua imparata apposta per poter
comunicare con loro, ho visto il senso vero del “prendersi cura”, del take care. Il senso profondo del
lavorare in sanità.
Ogni
giorno, nel pomeriggio, chiamavamo i parenti per informarli delle condizioni
dei loro cari e in breve tempo anche noi li abbiamo conosciuti meglio. Camminavamo
per la terapia intensiva e sentivamo le videochiamate organizzate per far
vedere a L. il marito e i suoi gatti, per far parlare M. con i figli e
convincerlo a prendere le medicine, o per far cenare C. con le sue nipoti che
la spronavano a finire la minestra. Lontani ma vicini, veramente vicini.
L’ultimo
giorno era rimasta come unica paziente C., una donna di 72 anni arrivata da noi
il giorno dell’apertura. Nel pomeriggio, mentre spingevo la sua sedia a rotelle
in giro per la struttura, scherzavo con lei dicendole che la bolletta di quella
notte le sarebbe stata addebitata interamente perché era rimasta l’unica
degente. Quel giorno avevamo deciso di organizzarle un incontro del tutto
inatteso con il marito e la figlia: per temporeggiare in attesa dell’incontro,
eravamo tutti lì intorno a lei. Quando finalmente l’abbiamo vista con i suoi
familiari è stata una forte emozione anche per tutti noi.
In
EMERGENCY c’è una tradizione a cui teniamo tanto noi espatriati: a fine
missione riceviamo una bandiera di EMERGENCY autografata da tutti i membri
dello staff con cui abbiamo lavorato, un ricordo di quei mesi di vita vissuta
insieme. L’abbiamo preparata anche per C. quella bandiera perché è rimasta con
noi dall’inizio alla fine, diventando parte del gruppo. Il giorno della
dimissione gliel’abbiamo consegnata, mentre andava via in ambulanza verso il
centro di riabilitazione dove avrebbe finito la convalescenza. L’abbiamo vista
riappropriarsi della sua vita.
Quella
mattina i miei occhiali protettivi erano più appannati del solito.
A
fine giugno mi è arrivato un video da parte della figlia: era il suo arrivo a
casa, la conferma definitiva che ce l’aveva fatta, che tutti insieme ce l’avevamo
fatta.
N°
96 di EMERGENCY, settembre 2020 Tiratura 146.700 copie, di cui 120.000 spedite
ai sostenitori Direttore Gino Strada Direttore responsabile Roberto Satolli
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