L’instabilità
Sudan
– Khartoum
Tra incertezza politica e crisi economica, la già difficile situazione del Paese ulteriormente aggravata dall’epidemia di Covid-19.
Alessandro Salvati - Emergency
La
mattina di martedì 9 giugno, mentre andavo in ospedale, mi sono reso conto che
esattamente quel giorno di 11 anni prima avevo iniziato a lavorare al Centro Salam di Khartoum, con EMERGENCY. Il 9
giugno 2009 partivo per una missione di 6 mesi come cardiochirurgo e mai avrei
pensato di rimanerci per 11 anni. La giornata è stata piena di attività come
del resto succede tutti i giorni al Salam:
l’ospedale è sempre pieno di pazienti, da tutte le parti del Sudan, dalle mamme
con in braccio i loro bimbi, alle persone anziane, tutti in cerca di un aiuto,
alcuni di loro fanno il viaggio della speranza per raggiungere Khartoum, magari
perché hanno sentito dire che c’è un ospedale di bianchi che opera al cuore e
si prende cura di loro gratuitamente, non chiedendo nulla in cambio. La sera,
appena tornato a casa, mi sono seduto accanto ai miei due figli e ho pensato a
quante cose sono successe in questo lungo periodo, e soprattutto a quello che è
successo in Sudan negli ultimi due anni.
Nel
2019, la rivolta popolare ha portato alla destituzione del Presidente Omar al
Bashir. Sono stati mesi difficili per tutto lo staff: ogni giorno ricevevamo
notizie sugli scontri tra civili e militari che avvenivano in città, spesso non
potevamo uscire dal compound e i colleghi sudanesi faticavano a raggiungere l’ospedale.
Nonostante le difficoltà, tutti eravamo impegnati per garantire la stessa
assistenza sanitaria di sempre. Alcuni colleghi sudanesi, a fine turno, si
fermavano da amici o parenti che vivevano vicino al nostro ospedale, altri
dormivano persino in ospedale pur di essere pronti a lavorare il giorno dopo.
Oggi
la popolazione soffre di un’enorme instabilità politica ed economica con
continui cambi di governi e di ministri, l’inflazione è arrivata alle stelle e
i prezzi dei generi alimentari sono aumentati in modo vertiginoso. L’arrivo del
Covid-19 ha ulteriormente peggiorato la situazione. Mi ricordo ancora di quando
a gennaio ascoltavo le notizie ai telegiornali insieme alla mia famiglia.
Sembrava un virus così lontano, la Cina era ancora l’unico paese colpito e
nessuno avrebbe mai pensato che si sarebbe potuto diffondere così velocemente,
trasformando l’epidemia in una pandemia globale.
Anche
se a marzo il Sudan era ancora ritenuto Covid-free, avevamo chiaro che prima o
poi sarebbe arrivato ovunque. Così è stato: poco dopo le autorità sudanesi
hanno iniziato a introdurre le prime misure di restrizione e a distanza di
qualche giorno è stato dichiarato il lockdown totale, la chiusura di tutte le
attività commerciali – tranne quelle di beni alimentari e di vendita di
carburante – e il divieto di movimento delle persone e di transito da Stato a
Stato: per questo anche i movimenti da e per i nostri Centri pediatrici a Port
Sudan e a Nyala sono stati interrotti.
In
questi mesi il nostro ospedale è sempre rimasto aperto e fin da subito abbiamo
introdotto tutti i dispositivi e le procedure di protezione per lo staff e per
i pazienti. Ci siamo riorganizzati predisponendo il triage all’ingresso dell’ospedale
e controllando tutti quelli che entravano, monitorando costantemente la
temperatura e la sintomatologia, fornendo a tutti una mascherina protettiva,
aumentando le postazioni di lavaggio mani e le procedure di igiene. Anche se
non ci siamo mai fermati, non è stato semplice lavorare. Nei mesi scorsi, chi
riusciva ad arrivare si presentava al Centro Salam in condizioni cliniche disperate.
Quello
che fa più male è pensare a pazienti con protesi valvolari bloccate o in
scompenso cardiaco che non possono raggiungere l’ospedale, magari perché non
hanno più il denaro per pagarsi il viaggio o perché vengono bloccati per
strada.
In
tutto il Paese l’assistenza sanitaria è stata drasticamente ridotta: molti
ospedali sono stati chiusi e, a causa delle carenze intrinseche del sistema
sanitario nazionale, non è ancora arrivata una risposta strutturata e univoca
alla pandemia.
La
chiusura degli aeroporti ha impedito gli spostamenti dei pazienti del Programma
regionale, che non potevano né arrivare in ospedale né tornare dai loro
familiari. Non dimenticherò mai le lacrime di quella mamma che ha visto morire
la sua bambina perché arrivata in ospedale troppo tardi ed è stata costretta a
seppellirla in un Paese che non è il suo, dove difficilmente potrà tornare a
trovarla. In un momento così doloroso, è rimasta bloccata nella nostra foresteria,
in un Paese straniero, senza neanche poter avere vicino l’affetto dei parenti e
degli amici. Mi ha commosso vedere le altre mamme e i bambini ospiti che,
seppure in lingue diverse, le stavano accanto per darle un po’ di conforto.
La
chiusura degli aeroporti ha complicato anche la gestione dello staff
internazionale. Da quando il governo ha deciso di chiudere tutti i voli
commerciali, abbiamo avuto difficoltà a garantire la presenza dello staff
internazionale necessario in ospedale. Se normalmente l’organico prevede 50
internazionali, mese dopo mese abbiamo visto questo numero scendere
gradualmente fino ad arrivare a 30, con tante difficoltà di riorganizzazione
del lavoro di tutti.
A
fine giugno, una nuova ondata di manifestazioni popolari nelle principali città
del Sudan si è aggiunta all’emergenza Covid-19, riaccendendo l’instabilità
politica. Ancora una volta abbiamo visto il nostro lavoro complicarsi, ma anche
in questa occasione siamo riusciti a mantenere aperto l’ospedale. Con il
supporto di tutto lo staff continueremo a mettercela tutta per portare avanti
il nostro impegno e garantire il diritto alle cure.
N°
96 di EMERGENCY, settembre 2020 Tiratura 146.700 copie, di cui 120.000 spedite
ai sostenitori Direttore Gino Strada Direttore responsabile Roberto Satolli
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