SOGNO TURCO



Paolo Luporini

Questa mattina sono stato svegliato, nel mezzo di un sogno intricato, dalle parole di mia moglie Joanni che stava sognando e parlando ad alta voce. Il mio sogno interrotto era così, ve lo narro come un racconto:
Kemal, nome fittizio, si sveglierà alle 2:17, si alzerà, inghiottirà una compressa di melatonina e tornerà a letto. Tre ore e mezza dopo, esattamente alle 5:47, sarà svegliato dalle parole della moglie Rihem che parla nel sonno. Lascerà che continui a sognare, curioso di ascoltare il racconto di quello che a lui parrebbe un incubo. Lui le racconterà il suo, appena interrotto dal forzato risveglio. Anche Rihem è un nome fittizio. Il sogno di Kemal è molto vero. Non aspettiamo il risveglio di Rihem per ascoltarlo. Ce lo svela lo stesso Kemal:

 «Ricordo tutto, purtroppo, di questo sogno, parlarne mi fa soffrire perché rivedo tutto il sangue, i corpi dei morti… Ma questa è la fine, la strage. Tutto inizia con una mia storia d’amore con un’amica conosciuta per caso su un vaporetto che traghetta due punti opposti del Bosforo, Kadıköy nella parte asiatica e Beşiktaş nella parte europea. Ero con il mio amico simpatico, il professor Güçlü Aslan Kurt, che insegnava all’università e, come tutti, si è dovuto adeguare al regime di Erdoğan. Lui, di natura scherzosa, ora è molto cambiato. Anche lui risente del momento triste di cui non vediamo la fine. A quel tempo, prima del colpo di stato, era ancora allegro e fu lui che attaccò discorso con quella bella sconosciuta. Iniziò fingendoci turisti americani e biascicando un ottimo inglese, immaginandola una studentessa – aveva in grembo due libri – le chiese informazioni sulla nostra destinazione, il punto di approdo. Le chiese, parlando a raffica, se là c’erano dei bei punti di ritrovo e un buon ristorante. Voleva farsi interessante e le faceva capire che disponevamo di ricche carte American Express. Anch’io m’intromisi, quando mi accorsi che la ritrosia della ragazza stava per essere vinta dalla curiosità. Pure lei aveva cominciato a farci qualche domanda. Il professor Kurt si finse il giocatore di football americano Andrew Luck, nel ruolo di quarterback per gli Indianapolis Colts della National Football League. Intuii un suo interesse sempre stato celato per quel lontano mondo, che seguiva dagli articoli di Internet. Presi l’iniziativa e la invitai a pranzo io, la ragazza. Kurt capì che la ragazza m’interessava e così si ritirò dicendo che doveva rientrare nel nostro albergo e che mi avrebbe aspettato là per la cena, Lui si sarebbe arrangiato per il pranzo con un panino al kebab al volo, per strada. Capii che piacevo alla ragazza perché, da come si erano messe le cose, accettò con malcelato entusiasmo. Sino a quando fummo a terra, la ragazza parlò solo con me e Kurt si mise a guardare il panorama, scattando foto con il suo cellulare, che era uno dei primi smartphone decenti per le foto, un Nokia Lumia 1020: la sua fotocamera arrivava ad avere 41 megapixel. Fiero di farci vedere le sue prede fotografiche, appena a terra ce le mostrò: banali foto cartolina ma anche un paio di buone foto di noi due che ridevamo conversando tra noi. La ragazza, dalla quale avevo carpito il nome, Tan, che significa Aurora, volle assolutamente le due foto e Kurt si diede da fare per trasferirgliele sul suo cellulare. Anch’io le volli e Kurt accontentò anche me. 

Più tardi ebbi da lei anche di più, il pranzo insieme, durante il quale mi svelai come il modesto ragazzo turco che viveva nella parte asiatica e che rimorchiava le ragazze sul traghetto. A quest’ammissione, Tan mi guardò con benevolenza perché era ormai mia nel cuore. Aveva scoperto, dai miei sguardi dolci, il ragazzo buono e onesto che ero. Mi disse che non credeva che ‘rimorchiassi’ le ragazze e, anzi, insinuò che con esse non avevo molta fortuna perché le sembravo ‘molto imbranato’. Le dissi che non ero così, che ne avevo avute molte, un po’ più di due dita di una mano. Con la terza solo un bacetto, ma piccolo piccolo, in punta di labbra. La feci ridere, non smetteva più, e le chiesi se lei era fidanzata. Lei disse no, lo era stata, ma si erano lasciati e non voleva parlare di lui, era una storia triste. Le proposi di metterci insieme, l’avrei sempre fatta ridere, era una ferma promessa. Lei disse: “Perché no? Possiamo provare… “. Le presi la mano al di là del tavolo e, guardandola negli occhi, le pronunciai questa dichiarazione: “Sarai la mia donna.”. Lei, distogliendo lo sguardo modestamente verso il basso, ma con un largo sorriso, disse semplicemente: “OK!!!”. Era fatta! Pagai e ci alzammo mano nella mano, senza nessuna direzione. Camminando così a vuoto, io gongolando, lei agitando la gonna con la mano e, improvvisando un balletto coordinato con i miei passi, mi guardava, sorrideva e poi abbassava leggermente lo sguardo in quello stesso modo di quando mi disse “OK!!!”. Era davvero una ragazza amabile e mi confermai internamente nel mio patto di prima. Sapete di quando ci si sporge dal pontile o dal trampolino e si sta per tuffarsi? Mi sporsi e mi lanciai perdutamente. Un grande amore cominciò così. In un piccolo parco che consisteva in due alberi e una sola panchina, tutta per noi, che non avevamo nessun bisogno di un panorama per essere romantici. Vi passammo tutto il pomeriggio, lì seduti, aspettando che non passasse nessuno per abbracciarci e baciarci. In pubblico non si può, ma ce ne siamo fregati! 

Il sogno fa un salto, va avanti sino ai giorni nostri di dopo la restaurazione di Erdogan e del suo regime duro. Internet è limitata e controllata, le libertà personali e di associazione quasi azzerate, comunque tutto è sotto l’osservazione del regime repressivo. Nel sogno ero di nuovo in un ristorante, sotto le stelle, questa volta, con le candele sul nostro tavolo, forse era il nostro anniversario, e Tan mi sorrideva, dall’alto dei nostri già numerosi anni di matrimonio. Non era un alto traguardo, erano solo cinque, gli anni. Da qualche parte, presso una studentessa che faceva da baby-sitter, c’era la nostra piccola treenne Yıldız, una piccola stella che illuminava anche quella nostra serata. Era presente, anche se distante, il terzo incomodo che non ci guastava il godimento di stare insieme, ma completava una trinità che presto si sarebbe allargata. Speravo in un maschio, ma era ancora presto per saperne il sesso. Il nostro quinto anniversario celebrava il recente test di gravidanza positivo. Per fortuna, i nostri tamponi e test sierologici per il COVID-19 erano ancora sempre negativi. Tan, quando si avvicinava il cameriere, calzava rapidamente la sua mascherina FFP2 e così la imitavo anch’io, per poi togliercela entrambi per mangiare oppure mentre conversavamo tra noi, senza altre presenze vicine. Un anniversario triste? Meno di quello del 2020, passato in casa. Allora eravamo in un lockdown stretto, molto più severo che altrove. Sappiamo che il virus circola ancora e manteniamo abitudini molto prudenti, ma ci apriamo un minimo alla vita e festeggiamo, con una punta di amarezza al pensiero del pericolo che corriamo e ai morti che non sono più con noi. La maledetta polmonite e le altre numerose cause di morte, che non smettono nella pandemia, ci avevano portato via cari amici e parenti. Sì, persino il caro Kurt, il nostro amico Güçlü Aslan. Lui, al quale dovevamo il nostro fortunato incontro, era morto solo, intubato, dopo aver ricevuto un’inutile trasfusione completa del sangue. Ogni tentativo di salvarlo è stato inutile. Che pena ripensarlo! È un pensiero e un discorso che evitiamo di farci. Tra noi, lo rimuoviamo, ma ciascuno di noi ripensa spesso a lui e soffriamo in modo solitario, mentre per il resto ci comunichiamo tutto, anche i sogni. Cara Rihem, non essere gelosa se ti racconto questo sogno di oggi, non essere gelosa di Tan, è solo una presenza del mio inconscio, non è reale. Forse è, invece, una proiezione dell’immagine che io ho di te. Vorrei ora arrivare al nocciolo del sogno, alla sua parte dura e drammatica, che finirà tragicamente. 

Tan se ne esce, cambiando improvvisamente discorso, con il racconto di ciò che le era capitato quella mattinata. Aveva incontrato una donna sconosciuta che aveva attaccato bottone su futili argomenti ed era arrivata, capendo che si poteva fidare, a esprimere timidi giudizi sulla situazione presente. Tan l’aveva assecondata e si era sbilanciata con assensi dei segni muti del corpo sincronizzati con alcuni punti del discorso della donna. Alla fine di questo colloquio, la donna le aveva detto, parlando con i denti stretti, alzando leggermente il volume della voce: “Allora ci vediamo alla preghiera…” e poi, sussurrando: “Al Serefiye Sarnici, alle ventuno di domani.”. Tan: “Il Serefiye Sarnici è chiuso temporaneamente, e la cosa mi ha insospettito. Sono curiosa, vorrei indagare. Ci andiamo, domani? Bisognerà farlo con circospezione.”. Io le dissi: “Può essere molto pericoloso. Non ne parlare con nessuno. Ci andrò io, da solo, domani.” Tan insistette per non farmi andare da solo, in fondo era curiosa quanto me, ma io, protettivo, m’imposi dicendole: “Non discutiamone più, è deciso! Andrò io solo, e tu resterai a casa.” In alcuni casi, è meglio dimezzare il rischio per una famiglia… Il patriarca può venir comodo. Mi scusai della prevaricazione, ma solo con me stesso. Rihem, con te non avrei potuto farlo. Tu ed io decidiamo tutto insieme e condividiamo le conseguenze di tutte le nostre scelte comuni. Ma in sogno… 

Il giorno dopo ero molto preoccupato per quello che sarebbe potuto succedermi, mi sarei messo in una situazione difficile? Avrei compromesso la nostra situazione futura con un mio possibile arresto? D’altra parte, sentivo la responsabilità, diciamo così, “civica”, di fare qualcosa per unirmi ad altri per resistere, forse lottare, dare un senso alla nostra attuale sofferenza aprendomi alla speranza della fine del regime oppressivo e alla luce di una libertà che era per me solo un ricordo di prima del 2016. Eh, già, sono già passati quasi cinque anni. Come sono stati lunghi! Quanta gente è sparita. Non si vedono più in giro e non si viene a saperne la fine. Di molti arresti non se n’è venuto a sapere, Girano voci che siano arrivate delle ambulanze e che molti siano stati ricoverati per covid, ma troppi non si sono più rivisti! Così, sempre guardando all’orologio, compaio davanti all’ingresso del Serefiye Sarnici soltanto alle ventuno precise e mi trovo con la donna dell’incontro di Tan di ieri mattina. Questa, camminandomi vicino, mi allunga in silenzio un biglietto con un indirizzo e la scritta: “Vieni subito!”.
Senza pensarci troppo, mi dirigo là, dove il portone era socchiuso e m’inoltro nel palazzo, nelle cui scale la luce era spenta. Improvvisamente, al mio ingresso, la luce si accende, si apre una porta e un uomo mi fa cenno di entrare e seguirlo. Lì, in una stanza, c’erano già sei persone, tutti uomini. La donna non c’era. Senza perder tempo, uno di questi mi disse, alzandosi: “Se sei qui ora, è perché in qualche modo senti, come noi, che si deve far qualcosa per contrastare il regime. Non avere paura, noi vi conosciamo bene, meglio di quanto non faccia il regime. Crediamo di poterci fidare. Siete stati amici di Kurt, se piacevate a lui, fate pure al caso nostro. Poi, vi seguiamo da quando lui ci ha passato le consegne, una di quelle consegne siete voi. Il nostro esame lo avete superato, perciò siete stati cooptati. Siamo un considerevole numero di ‘associati’ e aspettiamo la vostra risposta affermativa. In cambio, avrete la nostra assidua e continua protezione.”. Io, considerando che forse un diniego non mi sarebbe stato possibile perché ci sarebbero state conseguenze, risposi sì anche a nome di mia moglie Tan. Mi avvisarono che sarei stato convocato a una nuova adunanza in un altro luogo segreto, mai lo stesso. 

Passarono giorni senza storia, io e Tan sempre in attesa di una convocazione, sino a che ricevemmo una telefonata misteriosa di una donna che con voce affranta ci comunicava un indirizzo e diceva: “Subito!”. Ci vestiamo in fretta e furia, prendiamo la nostra auto, ci dirigiamo là e parcheggiamo un po’ distante dall’indirizzo, entriamo nel portone, nel buio totale (l’interruttore segnalava che nel palazzo mancava la corrente) troviamo una porta aperta, entriamo e, alla luce della torcia dei nostri smartphone, ci appare uno scenario sanguinoso e di morte. Cadaveri di persone per terra, appoggiati ai mobili dell’appartamento, penzolanti dalle sedie, sdraiati scompostamente sui divani. Solo nella stanza da letto non c’era nessuno, solo una bimba che piangeva in un lettino con le sponde. Poteva avere circa tre anni come la nostra Yıldız, questa bimba per noi senza nome era sicuramente della casa. Tan, che alla vista della strage, scrutando i volti dei cadaveri crivellati da una mitraglietta, aveva vomitato, davanti alla bambina si ripulì in fretta e la prese in braccio. Io controllai se ci fosse qualche sopravvissuto. Sperai di trovarne almeno uno e la mia ricerca era ossessiva, smuovevo i cadaveri scrollandoli senza pietà e ripetevo spesso la sola parola “Perché?”. L’istinto di conservazione mi fece balenare una sensazione di pericolo: dovevamo andarcene subito! Prima volli scattare le foto di quell’orrenda strage con il flash, dopo aver chiuso rapidamente anche le persiane rimaste aperte, per non far vedere i lampi del flash dall’esterno. Tan, che mi vedeva frenetico in quel macabro reportage, mi scrollava pregandomi di fare presto, non di smettere, ma di fare in fretta. Era pericolosissimo restare. In questo punto il sogno-incubo si è interrotto, con una fine tragica, la peggiore. Non ho sensazioni positive, eppure il fatto positivo è che noi due eravamo ancora vivi, noi quattro, con la nuova bambina, e cinque con quell’altro in arrivo.». 

Rihem: «Davvero un bel sogno, Bravo!».


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