ASCENSIONE ALL'ALPE DEL SUCCISO
ASCENSIONE ALL'ALPE DEL SUCCISO
Paolo Luporini
7 gennaio 2023
Una di queste sere, socchiudendo gli occhi dalla stanchezza di una giornata con indosso un Holter cardiaco di 24 ore, ho ripensato all’ASCENSIONE AL MONTE VENTOSO di Francesco Petrarca, una lettura di terza liceo che allora mi piacque, e mi sono ripromesso di ricercarla, la mattina dopo. Il pensiero di dimenticarmi di farlo mi ha fatto ricorrere, aprendo gli occhi, allo smartphone, per scrivermi un promemoria, ma, poi, ne ho ricercato su Google Chrome il download. Dovevo subito leggerlo. Il racconto era piuttosto un riassunto dell’originale. Ne ero contento lo stesso e così il mio promemoria fu per scriverne le mie considerazioni, ma ne vien fuori l’idea di un confronto tra quell’esperienza lontana nel tempo di secoli, con la mia altrettanto lontana di decenni, un mezzo secolo, anche. La prima volta in cui giunsi in cima a una vetta fu quella della volta in cui ci svegliammo alle tre del mattino, eravamo a un campeggio estivo con l’Oratorio Salesiano di Via Roma di La Spezia a Cerreto Laghi, nelle tende, sotto la guida di don Chiari, l’assistente degli aspirant di Azione Cattolica. Qualcuno fece molta fatica a svegliarsi, e altrettanta a vestirsi e a prepararsi lo zaino. Don Chiari insistette molto perché si facesse presto e si prodigò a preparare zaini, sfilare dai sacchi a pelo i più recalcitranti. Lasciammo al campo solo la nonna di Massimo, che ci faceva da cuoca, nonna di tutti, per due settimane. Cammina cammina, ricordo ancora i panorami notturni, giungemmo facilmente in cima, ma eravamo stremati e ci buttammo a terra. Un sorso d’acqua, senza esagerare… poteva servirci per il ritorno. Ci accorgemmo della meravigliosa vista panoramica. Lo sguardo spaziava su tutti i trecentosessanta gradi di ogni orizzonte, compreso naturalmente il mare, e scoprimmo che si poteva vedere Spezia, riconoscerne i profili noti delle isole. La distanza c’impressionò, come quello sguardo a volo d'uccello che ci era costato ore e ore di cammino, a soccorrere quelli che restavano indietro, per arrivare tutti alla meta. Eravamo davvero molti, su quel crinale che ricordo esteso, aperto, e ci dava l’impressione di essere sollevati dal terreno, nonostante le nostre basse stature di ragazzi, perché a destra e a sinistra del nostro cammino la terra era bassa e noi, in equilibrio, provavamo la sensazione del volo umano. Invece camminavamo, a saltelli, giocando come aquile e falchi su quelle altezze montane. Un’esperienza molto diversa dal Petrarca, che soffrì per arrivare alla cima, e meditò sul proprio passato e al ‘doppio uomo’ che era, diviso dal piacere di cui godeva pensando al proprio cambiamento in un uomo migliore, al prezzo di sforzi e lotte interiori, con il rimpianto dei piaceri e dei vizi ai quali aveva rinunciato, che ripensava ancora con lo stesso desiderio di prima. Io, dodicenne, non sapevo né di vizi né di peccati, potevo rimproverarmi un po’ di liti con il fratellino, dal quale mi distanziano sempre un po’ meno di quattro anni. Ora la differenza si nota meno, almeno da parte mia, A volte lo giudico più maturo di me e più abile, a volte mi riconosco, in altri lati del carattere, un privilegiato. Paragonarsi è una faccenda molto dura, e il paragone con il Petrarca è una questione asperrima. Comunque, come montanaro, non mi è parso un granché, ma io sul Mont Ventoux non ci sono mai salito e ho idea che quel contadino che Francesco e il suo compagno Gherardo avevano incontrato avesse le sue ragioni per metterli in guardia dal continuare la salita. Molte volte pure io sono stato caparbio è ho preso decisioni di testa mia, a volte ho pagato, per non aver dato retta agli ammonimenti, a volte, il più delle volte, mi è andata bene, come se uno sguardo protettivo assecondasse i propositi a fin di bene che tenevo come mia bussola d’orientamento.
Un’altra vetta, la seconda che ascesi, fu il Col di Nava, una cima più modesta, ma che era disseminata di stelle alpine. Eravamo molti ragazzi provenienti da oratori salesiani di tutta la Liguria, lì riuniti in provincia d’Imperia per seguire una serie di test di orientamento per guidarci, alla fine della III Media, alla scuola media superiore più indicata per noi, oppure ad un Istituto tecnico o professionale. In base ai miei requisiti avrei potuto aspirare a ben quattro carriere differenti. Io ero indeciso tra Ingegneria e Medicina e scelsi il Liceo Scientifico, ma avrei potuto ugualmente scegliere una carriera artistica e creativa, oltre ad un’altra quarta opzione che non ricordo. Fu un lavoro serio degli psicologi salesiani, che da Don Bosco in poi hanno sempre tenuto molto alla realizzazione nel lavoro dei giovani loro affidati. Ma in quanto a quelle centinaia di stelle alpine, forse un migliaio furono raccolte da noi ragazzi, per essere chiuse tra le pagine di un libro e per essere poi regalate ad amici, zie e cugini. Erano regali apprezzati ed erano compresi nella cultura alpina, sino a quando si scoprì che con queste razzìe si stavano estinguendo e la raccolta fu vietata. Ricordo a tutti che non è l’unica specie di cui è vietata la raccolta, e vi chiedo: “Che senso ha raccogliere fiori che potrebbero essere rari?”. Una fotografia può essere un frutto migliore di una caccia indiscriminata, ignorante e distruttiva.
Pure quella modesta ascensione fu un’occasione di elevare di un po’ il mio punto di vista, allargare gli orizzonti, specialmente restando al passo con nuovi amici di altre città liguri che non ho mai visitato. Da scout feci escursioni più impegnative sul piano fisico, ma senza contemplare il raggiungimento di alte vette, privilegiando la cultura della strada percorsa in un gruppo, un collettivo che voleva diventare così una comunità itinerante, come i tre viandanti di Emmaus. Chi non ricordi quel passo evangelico tenga nel cuore il calore di queste parole di due di loro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. Così facciamo noi ancora adesso, quando ai nostri crocevia, ai nostri incontri casuali o cercati, incontriamo cuori amici! I miei scritti mi danno più occasioni per soddisfare questo bisogno d'incontri, di me con gli altri e degli altri tra loro tramite me. Attualmente, sono già al quarto incontro di lettura organizzato da me e da altri, con questo intento di mantenere accesi i nostri cuori in fiamme. Spesso vi si parla di Amore.
Con un salto di parecchi anni, venne per me la salita (in ascensore) della Tour Eiffel e, in uno dei tre Étages, incontrai un gruppetto di ragazzi sordi guidati dalla più bella ragazza francese che avessi visto in tutto quel soggiorno parigino e nei miei precedenti viaggi nel centro della Francia, in Costa Azzurra e in Corsica. M’innamorai follemente, ma dopo la nostra conversazione alla presenza dei suoi ragazzi che non intendevano le nostre parole ma intuivano ciò che provavamo entrambi, lei proseguì per sempre nel suo percorso di responsabilità verso quei ragazzi a lei affidati, ed io nella mia salita all’Étage superiore. Ci trovai le statue di cera dell’ingegner Gustave Eiffel e di Thomas Edison. Sono in un appartamento che un tempo era segreto, un ufficio all’interno del quale Eiffel, un esponente della massoneria, intratteneva illustri ospiti dell’élite francese. La Tour costituisce, infatti, il simbolo massonico della piramide con in cima l’occhio che tutto vede. Le pareti di quell’appartamento erano rivestite di carta da parati dai colori caldi e i mobili erano tutti in legno, i divani in velluto; c’era un pianoforte a coda. Furono in molti ad offrire congrui compensi per alloggiare almeno una notte in quest’appartamento a 300 metri dal livello della città di Parigi, da dove lo sguardo spazia tutt’intorno con un orizzonte di molti chilometri. Eiffel tenne per sé questo privilegio e vi accolse solo personalità con le quali discuteva dei suoi futuri progetti. L’arredo è rimasto quasi invariato e vi è presente persino il fonografo che Edison gli aveva regalato.
L'addio alla donna dei miei sogni, avvenuto al secondo piano, non era stato sufficientemente ripagato dal ritrovarmi sul punto più alto di Parigi. Le cime che più ci confortano non sono uguali per tutti. Avrei fatto bene a seguirla, forse in un pranzo al sacco con i suoi ragazzi muti, ma godetti ugualmente di una vista splendente ma per me anonima perché, a parte il moderno quartiere della Defense, non distinguevo altro che la collina di Montmartre con la Cattedrale inconfondibile del Sacre-Coeur. Mi recai pure là, ma in taxi, evitandomi le suggestive e caratteristiche scalinate sulle quali si esibiscono giocolieri e acrobati che sbarcano il lunario con le offerte e gli applausi alla loro bravura.
In un altro viaggio, in Tunisia, era prevista una salita che tutti noi del Giro delle oasi eravamo in grado di fare, eccetto Daniela, una giovane donna in grado di camminare ma non di fare quella salita. Soffriva di sclerosi multipla, e voleva provare tutte le emozioni di quel viaggio meraviglioso, per me il più bello, e, per ora, l’unico in Africa. Il suo desiderio era grande, avrebbe volute salire con noi, ma non ne era in grado. Avrebbe pure rinunciato, delusa per il suo limite che l’avrebbe costretta nel minibus per tutto il tempo di quella breve escursione. Il capo gita, un generoso e credente parrocchiano di Tellaro, ci fece andare avanti e, da solo, la sollevò da terra abbracciandole le gambe e la portò sino in cima, senza aiuti. Secondo me, il nostro obiettivo risultò deludente a noi per quel poco che c’era da vedere, arrivati in cima, ma per Daniela e Cesare fu la salita al Calvario più soddisfacente tra tutte le vette più alte del mondo, Everest compreso.
Salii su molte torri, una delle quali aveva in cima un albero vero e, intorno, un delizioso piccolo giardino pensile. A New York salii in ascensore sul grattacielo che per molti anni fu il più alto del mondo, l’Empire State Building. L’ascensore fu il più rapido che avessi mai utilizzato e la brevissima durata della salita di tutti quei piani mi dette la surreale impressione d'irrealtà, quando mi affacciai a guardare le strade di sotto, con automobiline minuscole come coriandoli rettangolari in fila uno dietro l’altro. Ero sul terrazzino del negozietto di souvenir più alto al mondo, ricco di gadget di statuine di King Kong abbracciato a un modellino del grattacielo, poster del film, vedute di Manhattan e dell’ESB. C’era uno strano torchio che era sempre in funzione. Pressava un tuo piccolo cent e lo portava a un diametro grande come un sottile sottobicchiere, mantenendo regolari le proporzioni dell’effigie di Abramo Lincoln. Restai per oltre una ventina di minuti con i miei tre compagni di viaggio in quella stanzetta di dimensioni ridotte in cui chi vi saliva si soffermava al massimo per cinque o sei, a volte comprava e poi riscendeva. Noi ci aspettavamo ‘qualcosa’, una sensazione particolare che fu per me l’imbarazzo di prolungare inutilmente un’esperienza oltre il massimo sopportabile da quei sopraelevati commessi di negozio. Non comprai nulla né mi feci schiacciare un mio ‘cent’. Un’idea commerciale molto americana che bollai come “un’americanata”.
Il giorno successive salimmo sulla più bassa delle Twin Towers del World Trade Center, il nuovo simbolo dell’America imperiale che mirava a dirigere, tramite il commercio e la potenza delle sue forze militari, l’intero globo terrestre e tutti i suoi popoli, da sottomettere con mezzi pacifici o con l’astuzia e la forza, al disegno di un Governo Mondiale guidato dagli Stati Uniti d’America. Sappiamo come andò, ma non ne conosciamo i dettagli, che sarebbero importanti, per capire il perché di tante vittime nell’abbattimento delle due vette artificiali più alte del mondo, un luogo in cui non potrei più tornare, la vetta del mondo civilizzato. Vidi le prime riprese della prima esplosione, il crollo della prima torre colpita, da molti angoli di ripresa, man mano che giungevano nelle redazioni delle agenzie delle televisioni, in mondovisione. Lo scontro del secondo aereo sulla seconda torre ci parve in diretta, e così come tale lo vivemmo. Fu un impatto molto forte sulle nostre psicologie. E fece decidere una guerra mondiale al terrorismo islamico, sapientemente manovrato per perpetuare una sudditanza mondiale all’occidente, facendo pure iniziare una manovra di accerchiamento alla Federazione russa, con l’estensione dei paesi NATO ai suoi confini, cosa questa che non era nei patti del disarmo bilaterale stipulato con Gorbaciov.
L’ultima vetta che ho scalato è stata, oltre al mio matrimonio, che è giunto ad iniziare il ventitreesimo anno, e quella scalata iniziata nel 2001 con la nascita di mio figlio Marco Valerio, quella che mi ha portato al piano del reparto COVID-19 dell’Ospedale Civile San Bartolomeo di Sarzana. In cima a quel basso pianoro ci sono rimasto 15 giorni, Una resistenza paragonabile a quella armena narrata da Franz Werfel. Mi ci è voluto molto impegno ed organizzazione, un diuturno coinvolgimento di tutte le mie energie fisiche e mentali per generare vibrazioni positive per sanare il mio organismo dopo aver virato la positività in un test negativo.
Ad ogni pié sospinto si proiettano verso l’alto nuove vette, come pilastri su cui arrampicarsi come in un videogioco terribilmente coinvolgente. Oggi c’è una tregua unilaterale per il Natale ortodosso. Tremo al pensiero di ascoltare il telegiornale delle 18, come mi sono abituato a fare, per il timore di ascoltarne una tremenda violazione dalla parte che l’ha rifiutata.
Per tornare a Francesco Petrarca e al nostro confronto, io non amo ciò che non amerei amare. Amo ciò che faccio e raccolgo ancora stelle alpine, ma non proibite, ed ogni pensiero che esprimo è una conquista. Se rileggo anch’io le Confessioni di Sant’Agostino: “E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano sé stessi.”, penso che io non lo faccio, seppure limiti le pulsioni del mio corpo, piegandolo ad un impegno molto più sedentario di quanto necessiterebbe, ma le soddisfazioni spirituali a cui voleva riferirsi Agostino, quelle sì, non le trascuro! E di far silenzio, come fece Petrarca, scendendo a valle, non lo faro, per chi vuole leggere o ascoltare. Chi non vuole, può restar sordo passando oltre, come chi lo fa seguendo un suo TomTom personale, senza guardare la strada e i suoi chiari segnali.
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