VEGLIA
VEGLIA
di Giovanni Tabacchiera
La lama di luce attraversa il pavimento, lambisce le gambe del tavolo, scopre i bordi del tuo piede scalzo, l’altro indossa ancora la scarpa col tacco largo, quelle che mettevi per le serate importanti. Il resto del corpo è trincerato nella penombra della cucina dove ti ho atteso in silenzio, contando i minuti, il rumore meccanico dell’ascensore, facen-domi sobbalzare ad ogni chiamata. Ho lasciato giusto uno spiraglio della porta del frigo aperto. Non sopportavo l’idea di rimanere lì, accanto a te, immerso nella densa oscurità della notte. Anche le chiazze di sangue hanno assunto un colore più opaco, meno macabro, più vicino al grigio cenere delle mattonelle.
E ora me ne sto qui a guardarti, amore, meravigliato dalla tua apparente flessuosità, nonostante il tuo corpo inerte, spoglio di pulsazioni, suoni, ricordi. Disabitato.
Ho suonato. Non posseggo le chiavi, hai fatto pure cambiare la serratura. Sapevo che eri a fare serata con lui, che saresti rientrata tardi. Al citofono ha risposto Angelina.
- papà, lo sai che non puoi venire qui.
- devo lasciare una cosa alla mamma.
- ma papà, non posso..
- e dai Angelina, eppoi ho voglia di vedervi, a te e Mattia.
- papà, non insistere, non posso..
- tu che sei stata sempre la mia reginetta ed io il tuo suddito?
So, che con “reginetta” ti saresti un po’ sciolta.
- uffa papà, guarda che sei insistente..
- vorrà dire reginetta che aspetterò qui seduto sullo scalino, fumando una sigaretta dietro l’altra..
- papà, devo almeno avvertire la mamma.
- per carità Angelina, vuoi rovinarle la serata, sai che tragedia ti fa quella? E’ solo un attimo, poi me ne vado. Promesso.
Dall’altra parte silenzio, solo uno sbuffo di disap-provazione. Poi cinque minuti, dieci ed infine la sua voce: - papà sei ancora lì?
- certo reginetta, ma ancora per poco.
Il rumore secco dell’apriportone scalfisce l’attesa. Salgo, faccio le scale, giungo al quarto piano col fiatone. Un lembo del volto spunta sopra il catenaccio della porta.
- ciao Angelina.
- ciao papà.
Resto a distanza, le sorrido. Lei mi scruta da quello squarcio di diffidenza. Allargo le braccia, dico, “bè, non apri a tuo padre?”.
- puoi lasciare a me quella cosa per la mamma - dice in tono lieve, poco propenso al dialogo.
Dev’essere il mio volto teso a causare tanta cautela, devo distenderlo, farlo rientrare in quello che era il padre di una volta. In quel momento non ho pensato che tutta quella circospezione era il frutto di chi aveva assistito alla liquefazione progressiva di un’integrità familiare. Grida, litigi, mani addosso, denunce, avvocati, sofferenza, fughe momentanee, perdoni, fragili ritorni, hanno determinato la frattura, come un iceberg andato alla deriva in un mare a noi sconosciuto.
- sono venuto anche per voi… avevo un grande desiderio di vedervi - e in parte sapevo che era vero.
Poi, in quel varco ristretto di titubanza è apparso lo sguardo vispo di Mattia, ha gridato “papà, papà!”.
Mi sono avvicinato e chinato, lui ha allungato una mano a toccarmi la faccia. A quel punto la porta si è chiusa per poi riaprirsi.
- promettimi che stai poco – ha fatto Angelina, fissandomi severa.
Promesso, ho detto. Ma sono rimasto tutta la serata, giocando con Mattia ai transformer, sapendo che ti avrei uccisa. Parlando di scuola con Angelina, sapendo che ti avrei uccisa. Guardando dal divano con loro il quiz alla tivù e il film di animazione “Cattivissimo me 2”, sapendo che ti avrei uccisa.
Sapevo che ti avrei uccisa anche quando Mattia è crollato dal sonno sulle mie gambe e l’ho portato in cameretta, quando verso mezzanotte si è addor-mentata pure Angelina lasciandola distesa sul divano e coprendola con un plaid, prima di chiudere a chiave la porta di sala, attento che non si svegliasse. Angelina, che ha fatto di tutto per restare vigile e per ricordarmi che me ne dovevo andare prima che tu rientrassi.
Dopodichè ho aspettato, seduto in cucina, al buio, con il timore che i battiti del cuore saliti d’intensità, così come il respiro che mi pareva un fiume carsico rivelassero la mia presenza. Quando la voce sorda dell’ascensore ha annunciato il tuo arrivo ho pensato che fossi morto prima che tu morissi.
Sai, conosco ogni cosa di te. I tuoi passi accorti in punta di piedi per non svegliare i figli, il profumo delicato che impregna l’entrata e che non avevi più messo finchè non hai conosciuto lui. L’abitudine per prima cosa di recarti in cucina a bere un bicchiere d’acqua.
La tua espressione quando ti sei voltata di scatto per aver percepito la presenza di qualcuno alle tue spalle è stata… è stata di meraviglia, una giocosa meraviglia prima di mutare in terrore. Forse hai pensato a uno scherzo di tua figlia per farti paura.
Non so che espressione invece avessi io. Assente? Folle? Spietata? Ordinaria? Me lo dovresti dire tu, amore, quando mi sono insinuato in quella crepa di tempo per tapparti la bocca con una mano e con l’altra accoltellarti al ventre, al fianco, al petto, una due tre quattro volte. Poi non l’ho nemmeno più contate.
Facciamo che.. nella terza c’era la rabbia per aver mandato a monte la mia vita.
Alla quinta forse eri già morta.
La sesta per avermi profondamente deluso, amore. Deluso si, per come hai preso a sottrarti a quel copione familiare che a principio ci aveva reso felici, come in un film. Hai cominciato a essere fuori orario, a non rispondere al cellulare, ai messaggi, trovavi sempre una scusa. Una volta era il traffico, un'altra il telefonino scarico. Persino nel vestire, ti sei andata a comprare quello straccio che ti arrivava a metà coscia. Pure qualche mio amico se n’era accorto “però, tua moglie…”. Però cosa? COSA stronzo! E lo avevo preso per il collo attaccandolo a un muro, che se non me lo tolgono dalle mani l’ammazzo. Volevi farmi impazzire eh? Farmi pagare il fatto che passassi ore alla sala scommesse, che perdessi soldi, .. già ma quella volta che ho vinto? Vi ho portato per il weekend a Venezia e tu non credevi ai tuoi occhi e continuavi ad abbracciarmi e a baciare i nostri figli.
L’ottava coltellata è perchè non mi ascoltavi più, come quando ti ripetevo che per pranzo i ravioli o i tortellini si mangiano la domenica che è un giorno speciale e non il martedi o il giovedi che non sono niente.
La dodicesima è stata per tua madre a cui non le sono mai piaciuto: - attenta a quell’uomo, ha una inclinazione al comando -. Mi hai detto a principio ridendo di quelle parole, quando ancora mi raccontavi tutto, - a volte nei suoi occhi se lo contraddici c’è come un riverbero di follia.
La sedicesima è perché non sapevo cosa facevi, con chi eri, e quelle altre puttane delle tue amiche ti coprivano, ti allontanavano da me.
La ventesima è perchè ti facevi scopare da lui.
E tu? Mi hai gridato una sera a cena davanti ai ragazzi, che sono scoppiati a piangere. Perché tu con quella Mara della sala scommesse cosa hai fatto? Cosa credi che non lo sappia che va avanti da un po’.
La ventunesima è quando quella volta che ti avevo fermata per strada ti sei rigirata contro urlandomi in faccia che lui almeno aveva il sorriso, quel sorriso che io non conoscevo più.
La venticinquesima è quando mi hai avvertito tramite avvocato che volevi separarti. Che non ce la facevi più, che ero peggio di quei tabescani, talebani… come cazzo si chiamano!
La trentesima è.. perché mi hai amato.
E ora sono qui a fissarti inchiodato su questa sedia. Improvvisamente svuotato, senza capo né cuore, senza ricordi, senza nome. Vedi, non mi tremano più neppure le mani. Le ho lasciate sul manico di quel coltello dove è defluita in pochi secondi tutta la mia vita, la mia vita con te.
No, non aver paura. So a cosa pensi. I nostri figli dormono tranquilli, Mattia nella sua cameretta, Angelina sul divano. Non li ho toccati, fidati, non sono mica un assassino io.
Se non fosse stato per la mia mano che ha soffocato quel tuo grido a momenti me li svegli. Sai che casino avresti provocato. Non oso pensarlo.
Ho chiamato i carabinieri. Rispetto alla polizia mi sembrano più scrupolosi, meno invadenti, diciamo più adatti al caso. Non so se te l’ho mai detto ma da bambino era il mio sogno, poi il destino ha deciso in maniera diversa. La striscia rossa sui pantaloni, quell’idea di disciplina e integrità al servizio della patria. Un Natale mi regalarono pesino il modellino della loro auto, la gazzella.
Al telefono sono stati molto buoni con me. Non faccia pazzie, non si muova. Non la tocchi. La lasci stare. Tranquillo, vuole rovinarsi la vita? Non faccia niente sino al nostro arrivo, mandiamo un ambulanza. Forse non hanno capito che è già finita.
Li ho pregati di non mettere la sirena, sveglie-rebbero i ragazzi. Poi volevano che restassi al telefono, ma ho staccato. Adesso che ci penso mi hanno chiesto pure se ero lucido. Lucidissimo ho risposto. Come il portacenere di vetro che teniamo in corridoio e che avevamo comprato a Murano.
Sai amore, stare qui accanto a te, senza più grida, tensioni, pianti è qualcosa che non ci concedevamo da tempo. E’ quell’averti mia per ore, giorni, per sempre. Se potessi parlare so che ribatteresti subito “fin troppo facile adesso, razza di bastardo”.
Ma le tue labbra cariche di un color mattone restano serrate, quelle labbra di cui sembrava non importarti più nulla. Piuttosto, a suscitare la mia attenzione è un fremito, un leggero tremore che ti scuote la gamba. Oddio. Forse è dovuto a uno spasmo del dopo morte, come cavolo li chiamano o a una mia impressione, certi direbbero “a uno stato di percezione alterata”, l’ho sentita una volta alla tivù da uno che studia queste cose, uno che insomma se ne intende. Ma ora che ti guardo meglio, quella lieve scossa che dapprima ho confuso per un effetto che fa la luce del frigo nell’oscurità, quella stessa vibrazione si è propa-gata a tutto il corpo. Ed è un po’ come quando al mattino ti svegliavi stralunata e ti ponevi seduta sul letto. Le medesime movenze alle quali assisto impassibile, permeato più di sconcerto che di orrore nel vederti tornare lentamente in piedi, tornare alla vita, come se ti fossi alzata dopo una banale caduta, solo zoppicante per il piede nudo. In volto un velo di fastidio nel notare la veste insanguinata.
Amore, pronuncio piano, per non farmi troppo sentire. E tu difatti non mi senti, non mi vedi, cerchi solo l’altra scarpa col tacco largo e quando la trovi la indossi, avviandoti con passo deciso verso l’uscita. Senza degnarmi di uno sguardo.
Torna indietro amore, così cancelli la prova del mio risentimento, della mia rivalsa, della mia unica ragione di esistere..
E ora che dico ai carabinieri? Che te ne sei andata dopo che ti ho ammazzata con trenta coltellate? Che mi sono inventato tutto? Che sto impazzendo?
Ti prego. Torna indietro.
Amore.
VEGLIA @condor0187 Monologo di Giovanni Tabacchiera
È un racconto di Giovanni Tabacchiera portato in scena da lui stesso al circolo anziani di piazza Brin, Spezia, in una serata di pioggia. È tratto dallo spettacolo NATURA MORTA - Storie senza né capo né cuore ...forse la coda. Rappresenta l'uxoricidio da parte di un marito dal quale la moglie si è separata. È suo il tragico monologo. Uno dei tanti casi in cui si esprime il femminicidio.
- Femminicidi in Italia
Quota cento, numero simbolico e inquietante, si tocca sommando le donne vittime di omicidio contate dal primo gennaio al 22 novembre 2024, escludendo i casi dubbi (tra cui una scomparsa e un suicidio forse simulato), i delitti preterintenzionali, gli infanticidi classificati come tali, le morti come conseguenza di altri delitti e la fine atroce di una ragazza cinese e di due connazionali, arsi nel rogo dell’emporio milanese in cui dormivano, probabilmente all’insaputa di chi ha dato fuoco al magazzino.
Sembra un fenomeno criminale che ha alle basi, molto spesso, una diversione culturale dell'amore che lo si sente come possesso, e l'abbandono, una scelta di autonomia della donna, sono visti come uno spregio all'identità dell'uomo, che si sente sminuito, nell'essere lasciato. Il problema è dei maschi. Un lavoro culturale e l'educazione dei figli maschi sono necessari a una società malata di egocentrismo.
- Videomontaggio di Paolo Luporini, operatore Gian Luigi Ago, 26/11/2024.
Commenti
Posta un commento