SOGNO TURCO NIDIFICATO NEL SOGNO SPLIT – sogni di scrittore

 


Paolo Luporini scrive. In gran parte scrive i suoi sogni. Poi li pubblica. Questi due sogni fanno parte di due raccolte, SPLIT e SOTTO/SOPRA. Il primo è una crociera a puntate che parte da Spalato, da cui il nome del panfilo, Split, attraverso la Dalmazia, lo Stretto di Corinto, l’Egeo, il Bosforo e il Mar Nero, sino alle bocche dello Dnjepr, pochissimi giorni prima dell'invasione russa dell'Ucraina. SPLIT è già stato pubblicato a puntate per i suoi amici sui social ed ora è su Amazon e nelle librerie di Spezia LIBeRItutti e LA SCOLASTICA. SOTTO/SOPRA lo si trova ormai solo su kindle Amazon o come cartaceo, ordinandolo per corriere. Non è più nelle librerie, ma lo trovate nella Biblioteca U. Mazzini alla Spezia.

SOGNO TURCO NIDIFICATO NEL SOGNO SPLIT – sogni di scrittore

SPLIT – SOTTO/SOPRA. Il regime di Erdogan

 

Passando con lo Split i Dardanelli, con il panfilo ereditato in sogno da mio padre, un modesto impiegato in pensione da dieci anni, vedemmo la penisola di Gallipoli, dove, nella Prima Guerra Mondiale, Francia e Gran Bretagna nel marzo del 1915 diedero inizio alla Campagna di Gallipoli, per neutralizzare le fortificazioni sulla penisola e liberare lo stretto per agevolarne il forzamento navale, attaccare Costantinopoli, far uscire l’Impero ottomano dal conflitto e rendere sicuro l’accesso al Mar Nero per ricollegarsi via mare con l’Impero russo. Iniziarono con un attacco navale e un mese dopo con uno sbarco che divenne un modello per quelli successivi nella storia militare. Per l’inesperienza, la mancanza di collegamento e la disorganizzazione della linea di comando, fu un grosso disastro, ma anche per una strenua difesa turca che occupava le posizioni più strategiche ed era coadiuvata da militari tedeschi. Paradossalmente, l’evacuazione andò molto meglio ma le due nazioni coinvolte, con il Corpo di Spedizione australiano, che tutti ricordiamo per i magnifici film Anni spezzati e Momenti di Gloria, subirono la perdita di 250.000 vittime e di navi d’importante tonnellaggio. Alla testa della difesa turca c’era il giovane tenente colonnello Mustafa Kemal Atatürk, che divenne poi, grazie a quella vittoria, l’uomo politico che si pose alla guida della Turchia moderna.




Con la sua guida, la Turchia divenne più occidentale e laica e persino le donne ebbero maggiori libertà con l’accesso allo studio e alle professioni. Mentre leggevo alcune schede di Wikipedia per rinfrescare le mie conoscenze su questo mondo per me poco conosciuto, ho avuto dal mio smartphone una notifica che la mia curiosità ha voluto subito visualizzare. È comparso un post di un gruppo d’impostazione politica che seguo già da un anno.



 

“Se n’è andata in silenzio, ieri pomeriggio, in una stanza d’ospedale, dove era stata trasferita dal carcere in seguito al precipitare delle sue condizioni.

Se n’è andata al 238esimo di uno sciopero della fame con cui chiedeva un processo equo in un Paese, la Turchia, in cui l’equità e la giustizia sono concetti inesistenti. Specie se sei donna. Specie se sei un’avvocata per i diritti umani. Specie se non pieghi la schiena di fronte a un potere che vorrebbe tapparti la bocca.

È morta così, Ebru Timtik, di fame e d’ingiustizia. Il suo cuore si è fermato semplicemente perché non aveva più nulla da pompare in un corpo scarnificato dall’inedia.

È morta per difendere il suo diritto ad un giusto processo, dopo essere stata condannata a 13 anni, insieme ad altri 18 avvocati come lei, detenuti con l’accusa di terrorismo, solo per aver difeso altre persone accusate dello stesso crimine.

È morta come Ibrahim e come Helin e come Mustafa del Grup Yorum, morti dopo 300 giorni di digiuno per combattere la stessa accusa.

È morta combattendo con il proprio corpo, fino alle estreme conseguenze, una battaglia che nella Turchia di Erdogan non è più possibile combattere con una parola, un voto, una manifestazione di piazza.

È morta come fanno gli eroi, sacrificando la propria vita per i diritti di tutti.

C’è solo un modo per celebrare la memoria di questa grande donna: non restare zitti. Far arrivare la sua voce il più lontano possibile, dove lei non può più arrivare.

Ci sono idee così forti capaci di sopravvivere anche alla morte.

Addio Ebru. Viva Ebru.

 

Mi sono commosso a questa notizia così come mi avevano scosso il grande numero di vittime iniziali del colpo di stato cruento di un paese che avrebbe voluto entrare nella Comunità europea e non vi riuscì per qualche opposizione di stati membri che non ne accettavano le condizioni politico-economiche. Erdogan soppresse i nemici politici che avevano cercato di detronizzarlo facendoli sparire nelle carceri oppure uccidendoli là dove venivano trovati. Controllando la scheda di Ebru, mi sono accorto che il post di cui avevo ricevuto la notifica non era dello stesso giorno della sua morte. Erano passati già molti mesi. Io l’ho letto come se quella donna stesse morendo tra le mie braccia, questo è l’importante. È stato come perdere una sorella che come me ha a cuore la dignità e la libertà di opinione, lo stato di diritto, conquiste non solo culturali ma che hanno avuto lunghi tributi di sangue anche da noi. Gli stranieri che erano in Turchia ebbero molte difficoltà a rientrare nei propri paesi. Per un amico che si trovò in questa situazione, poiché si era allarmato per tempo, tutto si risolse in un paio di giorni accampato nel terminal dell’aeroporto di Istanbul. Considerai che, dal punto di vista del regime, neppure io avrei potuto essere persona gradita, avendo scritto il racconto “Sogno turco” diffuso su Facebook, tuttora presente nel mio blog SINEDDOCHE – La parte per il tutto e pubblicato nella mia raccolta e-book e cartacea SOTTO/SOPRA. Avrei superato anche questo momento quando avrei presentato il mio passaporto italiano sbarcando a Istanbul. Il comandante mi consigliò, per facilitarci una visita turistica e un soggiorno più comodo e piacevole, di attraccare al City port pagando una mazzetta a un funzionario compiacente. Non ebbi fastidi, anzi, facemmo subito un’ottima cena in uno dei migliori ristoranti nelle vicinanze, accompagnati da suonatori tipici, come se fosse ancora il secolo scorso, ai tempi del film di Peter Ustinov con Maximilian Schell: che intendeva rubare il famoso preziosissimo pugnale custodito nel palazzo di Topkapi.

Nella notte, cattiva digestione turca, mi ricapita, identico, il “Sogno turco”:



Sogno turco

12 maggio 2021

 

Questa mattina sono stato svegliato, nel mezzo di un sogno intricato, dalle parole di mia moglie Joanni che stava sognando e parlando ad alta voce. Il mio sogno interrotto era così, ve lo narro come un racconto:

Kemal, nome fittizio, si sveglierà alle 2:17, si alzerà, inghiottirà una compressa di melatonina e tornerà a letto. Tre ore e mezza dopo, esattamente alle 5:47, sarà svegliato dalle parole della moglie Rihem che parla nel sonno. Lascerà che continui a sognare, curioso di ascoltare il racconto di quello che a lui parrebbe un incubo. Lui le racconterà il suo, appena interrotto dal forzato risveglio. Anche Rihem è un nome fittizio. Il sogno di Kemal è molto vero. Non aspettiamo il risveglio di Rihem per ascoltarlo. Ce lo svela lo stesso Kemal:

 

«Ricordo tutto, purtroppo, di questo sogno, parlarne mi fa soffrire perché rivedo tutto il sangue, i corpi dei morti… Ma questa è la fine, la strage. Tutto inizia con una mia storia d’amore con un’amica conosciuta per caso su un vaporetto che traghetta due punti opposti del Bosforo, Kadıköy nella parte asiatica e Beşiktaş nella parte europea. Ero con il mio amico simpatico, il professor Güçlü Aslan Kurt, che insegnava all’università e, come tutti, si è dovuto adeguare al regime di Erdogan. Lui, di natura scherzosa, ora è molto cambiato. Anche lui risente del momento triste di cui non vediamo la fine. A quel tempo, prima del colpo di stato, era ancora allegro e fu lui che attaccò discorso con quella bella sconosciuta. Iniziò fingendoci turisti americani e biascicando un ottimo inglese, immaginandola una studentessa – aveva in grembo due libri – le chiese informazioni sulla nostra destinazione, il punto di approdo. Le chiese, parlando a raffica, se là c’erano dei bei punti di ritrovo e un buon ristorante. Voleva farsi interessante e le faceva capire che disponevamo di ricche carte American Express. Anch’io m’intromisi, quando mi accorsi che la ritrosia della ragazza stava per essere vinta dalla curiosità. Pure lei aveva cominciato a farci qualche domanda. Il professor Kurt si finse il giocatore di football americano Andrew Luck, nel ruolo di quarterback per gli Indianapolis Colts della National Football League. Intuii un suo interesse sempre stato celato per quel lontano mondo, che seguiva dagli articoli di Internet. Presi l’iniziativa e la invitai a pranzo io, la ragazza. Kurt capì che la ragazza m’interessava e così si ritirò dicendo che doveva rientrare nel nostro albergo e che mi avrebbe aspettato là per la cena, Lui si sarebbe arrangiato per il pranzo con un panino al kebab al volo, per strada. Capii che piacevo alla ragazza perché, da come si erano messe le cose, accettò con malcelato entusiasmo. Sino a quando fummo a terra, la ragazza parlò solo con me, e Kurt si mise a guardare il panorama, scattando foto con il suo cellulare, che era uno dei primi smartphone decenti per le foto, un Nokia Lumia 1020: la sua fotocamera arrivava ad avere 41 megapixel. Fiero di farci vedere le sue prede fotografiche, appena a terra ce le mostrò: banali foto cartolina ma anche un paio di buone foto di noi due che ridevamo conversando tra noi. La ragazza, dalla quale avevo carpito il nome, Tan, che significa Aurora, volle assolutamente le due foto e Kurt si diede da fare per trasferirgliele sul suo cellulare. Anch’io le volli e Kurt accontentò anche me. 

 

Più tardi ebbi da lei anche di più, il pranzo insieme, durante il quale mi svelai come il modesto ragazzo turco che viveva nella parte asiatica e che rimorchiava le ragazze sul traghetto. A quest’ammissione, Tan mi guardò con benevolenza perché era ormai mia nel cuore. Aveva scoperto, dai miei sguardi dolci, il ragazzo buono e onesto che ero. Mi disse che non credeva che ‘rimorchiassi’ le ragazze e, anzi, insinuò che con esse non avevo molta fortuna perché le sembravo ‘molto imbranato’. Le dissi che non ero così, che ne avevo avute molte, un po’ più di due dita di una mano. Con la terza solo un bacetto, ma piccolo piccolo, in punta di labbra. La feci ridere, non smetteva più, e le chiesi se lei fosse fidanzata. Lei disse no, lo era stata, ma si erano lasciati e non voleva parlare di lui, era una storia triste. Le proposi di metterci insieme, l’avrei sempre fatta ridere, era una ferma promessa. Lei disse: “Perché no? Possiamo provare… “. Le presi la mano al di là del tavolo e, guardandola negli occhi, le pronunciai questa dichiarazione: “Sarai la mia donna.”. Lei, distogliendo lo sguardo modestamente verso il basso, ma con un largo sorriso, disse semplicemente: “OK!!!”. Era fatta! Pagai e ci alzammo mano nella mano, senza nessuna direzione. Camminando così a vuoto, io gongolando, lei agitando la gonna con la mano e, improvvisando un balletto coordinato con i miei passi, mi guardava, sorrideva e poi abbassava leggermente lo sguardo in quello stesso modo di quando mi disse “OK!!!”. Era davvero una ragazza amabile e mi confermai internamente nel mio patto di prima. Sapete di quando ci si sporge dal pontile o dal trampolino e si sta per tuffarsi? Mi sporsi e mi lanciai perdutamente. Un grande amore cominciò così. In un piccolo parco che consisteva in due alberi e una sola panchina, tutta per noi, che non avevamo nessun bisogno di un panorama per essere romantici. Vi passammo tutto il pomeriggio, lì seduti, aspettando che non passasse nessuno per abbracciarci e baciarci. In pubblico non si può, ma ce ne siamo fregati! 

 

Il sogno fa un salto, va avanti sino ai giorni nostri di dopo la restaurazione di Erdogan e del suo regime duro. Internet è limitata e controllata, le libertà personali e di associazione quasi azzerate, comunque tutto è sotto l’osservazione del regime repressivo. Nel sogno ero di nuovo in un ristorante, sotto le stelle, questa volta, con le candele sul nostro tavolo, forse era il nostro anniversario, e Tan mi sorrideva, dall’alto dei nostri già numerosi anni di matrimonio. Non era un alto traguardo, erano solo cinque, gli anni. Da qualche parte, presso una studentessa che faceva da baby-sitter, c’era la nostra piccola treenne Yıldız, una piccola stella che illuminava anche quella nostra serata. Era presente, anche se distante, il terzo incomodo che non ci guastava il godimento di stare insieme, ma completava una trinità che presto si sarebbe allargata. Speravo in un maschio, ma era ancora presto per saperne il sesso. Il nostro quinto anniversario celebrava il recente test di gravidanza positivo. Per fortuna, i nostri tamponi e test sierologici per il COVID-19 erano ancora sempre negativi. Tan, quando si avvicinava il cameriere, calzava rapidamente la sua mascherina FFP2 e così la imitavo anch’io, per poi togliercela entrambi per mangiare oppure mentre conversavamo tra noi, senza altre presenze vicine. Un anniversario triste? Meno di quello del 2020, passato in casa. Allora eravamo in un lockdown stretto, molto più severo che altrove. Sappiamo che il virus circola ancora e manteniamo abitudini molto prudenti, ma ci apriamo un minimo alla vita e festeggiamo, con una punta di amarezza al pensiero del pericolo che corriamo e ai morti che non sono più con noi. La maledetta polmonite e le altre numerose cause di morte, che non smettono nella pandemia, ci avevano portato via cari amici e parenti. Sì, persino il caro Kurt, il nostro amico Güçlü Aslan. Lui, al quale dovevamo il nostro fortunato incontro, era morto solo, intubato, dopo aver ricevuto un’inutile trasfusione completa del sangue. Ogni tentativo di salvarlo è stato inutile. Che pena ripensarlo! È un pensiero e un discorso che evitiamo di farci. Tra noi, lo rimuoviamo, ma ciascuno di noi ripensa spesso a lui e soffriamo in modo solitario, mentre per il resto ci comunichiamo tutto, anche i sogni.

 

Cara Rihem, non essere gelosa se ti racconto questo sogno di oggi, non essere gelosa di Tan, è solo una presenza del mio inconscio, non è reale. Forse è, invece, una proiezione dell’immagine che io ho di te. Vorrei ora arrivare al nocciolo del sogno, alla sua parte dura e drammatica, che finirà tragicamente.

 

Tan se ne esce, cambiando improvvisamente discorso, con il racconto di ciò che le era capitato quella mattinata. Aveva incontrato una donna sconosciuta che aveva attaccato bottone su futili argomenti ed era arrivata, capendo che si poteva fidare, a esprimere timidi giudizi sulla situazione presente. Tan l’aveva assecondata e si era sbilanciata con assensi dei segni muti del corpo sincronizzati con alcuni punti del discorso della donna. Alla fine di questo colloquio, la donna le aveva detto, parlando con i denti stretti, alzando leggermente il volume della voce: “Allora ci vediamo alla preghiera…” e poi, sussurrando: “Al Serefiye Sarnici, alle ventuno di domani.”.

Tan: “Il Serefiye Sarnici è chiuso temporaneamente, e la cosa mi ha insospettito. Sono curiosa, vorrei indagare. Ci andiamo, domani? Bisognerà farlo con circospezione.”. Io le dissi: “Può essere molto pericoloso. Non ne parlare con nessuno. Ci andrò io, da solo, domani.” Tan insistette per non farmi andare da solo, in fondo era curiosa quanto me, ma io, protettivo, m’imposi dicendole: “Non discutiamone più, è deciso! Andrò io solo, e tu resterai a casa.” In alcuni casi, è meglio dimezzare il rischio per una famiglia… Il patriarca può venir comodo. Mi scusai della prevaricazione, ma solo con me stesso. Rihem, con te non avrei potuto farlo. Tu ed io decidiamo tutto insieme e condividiamo le conseguenze di tutte le nostre scelte comuni. Ma in sogno…

 

Il giorno dopo ero molto preoccupato per quello che avrebbe potuto succedermi, mi sarei messo in una situazione difficile? Avrei compromesso la nostra situazione futura con un mio possibile arresto? D’altra parte, sentivo la responsabilità, diciamo così, “civica”, di fare qualcosa per unirmi ad altri per resistere, forse lottare, dare un senso alla nostra attuale sofferenza aprendomi alla speranza della fine del regime oppressivo e alla luce di una libertà che era per me solo un ricordo di prima del 2016. Eh, già, sono già passati quasi sei anni. Come sono stati lunghi! Quanta gente è sparita. Non si vedono più in giro e non si viene a saperne la fine. Di molti arresti non se n’è venuto a sapere. Girano voci che siano arrivate delle ambulanze e che molti siano stati ricoverati per covid, ma troppi non si sono più rivisti! Così, sempre guardando all’orologio, compaio davanti all’ingresso del Serefiye Sarnici soltanto alle ventuno precise e mi trovo con la donna dell’incontro di Tan di ieri mattina. Questa, camminandomi vicino, mi allunga in silenzio un biglietto con un indirizzo e la scritta: “Vieni subito!”.

Senza pensarci troppo, mi dirigo là, dove il portone era socchiuso e m’inoltro nel palazzo, nelle cui scale la luce era spenta. Improvvisamente, al mio ingresso, la luce si accende, si apre una porta e un uomo mi fa cenno di entrare e seguirlo. Lì, in una stanza, c’erano già sei persone, tutti uomini. La donna non c’era. Senza perder tempo, uno di questi mi disse, alzandosi: “Se sei qui ora, è perché in qualche modo senti, come noi, che si deve far qualcosa per contrastare il regime. Non avere paura, noi vi conosciamo bene, meglio di quanto non faccia il regime. Crediamo di poterci fidare. Siete stati amici di Kurt, se piacevate a lui, fate pure al caso nostro. Poi, vi seguiamo da quando lui ci ha passato le consegne, una di quelle consegne siete voi. Il nostro esame lo avete superato, perciò siete stati cooptati. Siamo un considerevole numero di ‘associati’ e aspettiamo la vostra risposta affermativa. In cambio, avrete la nostra assidua e continua protezione.”. Io, considerando che forse un diniego non mi sarebbe stato possibile perché ci sarebbero state conseguenze, risposi sì anche a nome di mia moglie Tan. Mi avvisarono che sarei stato convocato a una nuova adunanza in un altro luogo segreto, mai lo stesso.

 

Passarono giorni senza storia, io e Tan sempre in attesa di una convocazione, sino a che ricevemmo una telefonata misteriosa di una donna che con voce affranta ci comunicava un indirizzo e diceva: “Subito!”. Ci vestiamo in fretta e furia, prendiamo la nostra auto, ci dirigiamo là e parcheggiamo un po’ distante dall’indirizzo, entriamo nel portone, nel buio totale (l’interruttore segnalava che nel palazzo mancava la corrente) troviamo una porta aperta, entriamo e, alla luce della torcia dei nostri smartphone, ci appare uno scenario sanguinoso e di morte. Cadaveri di persone per terra, appoggiati ai mobili dell’appartamento, penzolanti dalle sedie, sdraiati scompostamente sui divani. Solo nella stanza da letto non c’era nessuno, solo una bimba che piangeva in un lettino con le sponde. Poteva avere circa tre anni come la nostra Yıldız, questa bimba per noi senza nome era sicuramente della casa. Tan, che alla vista della strage, scrutando i volti dei cadaveri crivellati da una mitraglietta, aveva vomitato, davanti alla bambina si ripulì in fretta e la prese in braccio. Io controllai se ci fosse qualche sopravvissuto. Sperai di trovarne almeno uno e la mia ricerca era ossessiva, smuovevo i cadaveri scrollandoli senza pietà e ripetevo spesso la sola parola “Perché?”. L’istinto di conservazione mi fece balenare una sensazione di pericolo: dovevamo andarcene subito! Prima volli scattare le foto di quell’orrenda strage con il flash, dopo aver chiuso rapidamente anche le persiane rimaste aperte, per non far vedere i lampi del flash dall’esterno. Tan, che mi vedeva frenetico in quel macabro reportage, mi scrollava pregandomi di fare presto, non di smettere, ma di fare in fretta. Era pericolosissimo restare. In questo punto il sogno-incubo si è interrotto, con una fine tragica, la peggiore. Non ho sensazioni positive, eppure il fatto positivo è che noi due eravamo ancora vivi, noi quattro, con la nuova bambina, e cinque con quell’altro in arrivo.».

 

Rihem: «Davvero un bel sogno, Bravo!».

 

Il sogno è finito così, con la risposta rassicurante di Rihem, moglie turca sottomessa al regime di Erdogan, che non farà parola a nessuno dei deliri onirici del marito. Così come io non lo raccontai a Joanni, il mio “Sogno turco”, per non rovinarle la visita di Istanbul.

Quel giorno visitammo il Topkapi, ma tutto quello sfavillio di tesori e di gemme enormi ci diede alla testa e guadagnammo velocemente l’uscita, per fare qualche acquisto di spezie in un mercato tradizionale, sopravvissuto, immagino, solo per i turisti. L’architettura in genere era moderna, a parte i monumenti conosciuti dove ti accompagnano le guide, una professione che scarseggia, con il timore dei turisti per il regime e per il covid. C’erano stati 10,9 milioni di casi totali e più di 85.700 morti. In meno di un mese, però, c’erano stati più di 900.000 casi, questo gennaio 2022. Non era una situazione da scherzarci. L’equipaggio restò a bordo in quarantena, noi, con un doppio tampone rapido negativo, ce la cavammo e, con i nostri Green Pass internazionali, potemmo accedere praticamente ovunque era permesso dalla prudenza, prima di tutto, poi dalla Legge. Il rispetto delle regole classiche come le conosciamo noi aveva varianti, ma le donne, almeno, portavano tutte quante le mascherine, specialmente di colore nero.

Il panorama antropizzato era tornato islamico e non trovammo neppure un’edicola con giornali europei. Mi assicurano che Erdogan si è molto impegnato in alcune importanti opere ma che ha avuto anche grandi resistenze per voler abbattere 600 alberi per un suo progetto che la gente non vuole. Ogni tanto capita qualche attentato di cui si viene a risapere anche in occidente, così come di atti di resistenza eroica da parte di detenuti politici che si lasciano morire nell’indifferenza del mondo. Io credo invece che tanto dolore lasci un segno più tangibile di tutto il cemento colato dall’edilizia senza freni del dittatore e prevedo che, come in altri precedenti storici, anche lui farà una brutta fine. Dopo una visita senza amore alla Basilica di Santa Sofia di Costantinopoli, una città che è stata la capitale di quattro grandi imperi, l’Impero Romano di oriente, l’impero bizantino, l’impero latino e l’impero ottomano. Come Istanbul, il cui nome significa "verso la Città" o "nella Città". - in questo modo i Greci si riferivano alla "Città delle Città" – è dal 1930 capitale della Repubblica turca. Era conosciuta inizialmente come Bisanzio e poi come Costantinopoli per moltissimo tempo. È Istanbul solo dal 1930. La Basilica di Santa Sofia è stata sempre dedicata alla Sapienza di Dio, sia come chiesa cristiana sia come moschea. Kemal Atatürk la volle trasformare in museo ma dal 2020 è tornata per volere di Erdogan una moschea, e nel 24 luglio vi ha recitato la prima preghiera pubblica islamica. Mia moglie Joanni dovette indossare una speciale tunica e dovemmo entrare senza le scarpe, ma in orari lontani da quelli di preghiera.

Rientrati a bordo, dicemmo che volevamo ripartire presto, appena possibile, attraversando il Mar Nero, dopo aver sfilato tra la riva occidentale e quella asiatica di Istanbul, che con i suoi grattacieli forma una doppia skyline molto suggestiva ma per noi invivibile.

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