SOGNO TURCO NIDIFICATO NEL SOGNO SPLIT – sogni di scrittore
Paolo Luporini scrive. In
gran parte scrive i suoi sogni. Poi li pubblica. Questi due sogni fanno parte
di due raccolte, SPLIT e SOTTO/SOPRA. Il primo è una crociera a puntate che
parte da Spalato, da cui il nome del panfilo, Split, attraverso la Dalmazia, lo
Stretto di Corinto, l’Egeo, il Bosforo e il Mar Nero, sino alle bocche dello
Dnjepr, pochissimi giorni prima dell'invasione russa dell'Ucraina. SPLIT è già stato pubblicato a puntate per i suoi amici sui social ed
ora è su Amazon e nelle librerie di Spezia LIBeRItutti e LA SCOLASTICA.
SOTTO/SOPRA lo si trova ormai solo su kindle Amazon o come cartaceo,
ordinandolo per corriere. Non è più nelle librerie, ma lo trovate nella
Biblioteca U. Mazzini alla Spezia.
SOGNO TURCO NIDIFICATO NEL SOGNO SPLIT – sogni di
scrittore
SPLIT – SOTTO/SOPRA. Il regime di Erdogan
Passando
con lo Split i Dardanelli, con il panfilo ereditato in sogno da mio padre, un
modesto impiegato in pensione da dieci anni, vedemmo la penisola di Gallipoli,
dove, nella Prima Guerra Mondiale, Francia e Gran Bretagna nel marzo del 1915
diedero inizio alla Campagna di Gallipoli, per neutralizzare le fortificazioni
sulla penisola e liberare lo stretto per agevolarne il forzamento navale,
attaccare Costantinopoli, far uscire l’Impero ottomano dal conflitto e rendere
sicuro l’accesso al Mar Nero per ricollegarsi via mare con l’Impero russo.
Iniziarono con un attacco navale e un mese dopo con uno sbarco che divenne un
modello per quelli successivi nella storia militare. Per l’inesperienza, la
mancanza di collegamento e la disorganizzazione della linea di comando, fu un
grosso disastro, ma anche per una strenua difesa turca che occupava le
posizioni più strategiche ed era coadiuvata da militari tedeschi.
Paradossalmente, l’evacuazione andò molto meglio ma le due nazioni coinvolte,
con il Corpo di Spedizione australiano, che tutti ricordiamo per i magnifici
film Anni spezzati e Momenti di Gloria, subirono la perdita di 250.000 vittime
e di navi d’importante tonnellaggio. Alla testa della difesa turca c’era il
giovane tenente colonnello Mustafa
Kemal Atatürk, che divenne poi, grazie a quella vittoria,
l’uomo politico che si pose alla guida della Turchia moderna.
Con
la sua guida, la Turchia divenne più occidentale e laica e persino le donne
ebbero maggiori libertà con l’accesso allo studio e alle professioni. Mentre
leggevo alcune schede di Wikipedia per rinfrescare le mie conoscenze su questo
mondo per me poco conosciuto, ho avuto dal mio smartphone una notifica che la
mia curiosità ha voluto subito visualizzare. È comparso un post di un gruppo
d’impostazione politica che seguo già da un anno.
“Se
n’è andata in silenzio, ieri pomeriggio, in una stanza d’ospedale, dove era
stata trasferita dal carcere in seguito al precipitare delle sue condizioni.
Se
n’è andata al 238esimo di uno sciopero della fame con cui chiedeva un processo
equo in un Paese, la Turchia, in cui l’equità e la giustizia sono concetti
inesistenti. Specie se sei donna. Specie se sei un’avvocata per i diritti
umani. Specie se non pieghi la schiena di fronte a un potere che vorrebbe
tapparti la bocca.
È
morta così, Ebru
Timtik, di fame e d’ingiustizia. Il suo cuore si è fermato
semplicemente perché non aveva più nulla da pompare in un corpo scarnificato
dall’inedia.
È
morta per difendere il suo diritto ad un giusto processo, dopo essere stata
condannata a 13 anni, insieme ad altri 18 avvocati come lei, detenuti con
l’accusa di terrorismo, solo per aver difeso altre persone accusate dello
stesso crimine.
È
morta come Ibrahim e come Helin e come Mustafa del Grup Yorum, morti dopo 300
giorni di digiuno per combattere la stessa accusa.
È
morta combattendo con il proprio corpo, fino alle estreme conseguenze, una
battaglia che nella Turchia di Erdogan non è più possibile combattere con una
parola, un voto, una manifestazione di piazza.
È
morta come fanno gli eroi, sacrificando la propria vita per i diritti di tutti.
C’è
solo un modo per celebrare la memoria di questa grande donna: non restare
zitti. Far arrivare la sua voce il più lontano possibile, dove lei non può più
arrivare.
Ci
sono idee così forti capaci di sopravvivere anche alla morte.
Addio
Ebru. Viva Ebru.
Mi
sono commosso a questa notizia così come mi avevano scosso il grande numero di
vittime iniziali del colpo di stato cruento di un paese che avrebbe voluto
entrare nella Comunità europea e non vi riuscì per qualche opposizione di stati
membri che non ne accettavano le condizioni politico-economiche. Erdogan
soppresse i nemici politici che avevano cercato di detronizzarlo facendoli
sparire nelle carceri oppure uccidendoli là dove venivano trovati. Controllando
la scheda di Ebru, mi sono accorto che il post di cui avevo ricevuto la
notifica non era dello stesso giorno della sua morte. Erano passati già molti
mesi. Io l’ho letto come se quella donna stesse morendo tra le mie braccia,
questo è l’importante. È stato come perdere una sorella che come me ha a cuore
la dignità e la libertà di opinione, lo stato di diritto, conquiste non solo
culturali ma che hanno avuto lunghi tributi di sangue anche da noi. Gli
stranieri che erano in Turchia ebbero molte difficoltà a rientrare nei propri
paesi. Per un amico che si trovò in questa situazione, poiché si era allarmato
per tempo, tutto si risolse in un paio di giorni accampato nel terminal
dell’aeroporto di Istanbul. Considerai che, dal punto di vista del regime,
neppure io avrei potuto essere persona gradita, avendo scritto il racconto “Sogno
turco” diffuso su Facebook, tuttora presente nel mio blog SINEDDOCHE – La parte
per il tutto e pubblicato nella mia raccolta e-book e cartacea SOTTO/SOPRA. Avrei
superato anche questo momento quando avrei presentato il mio passaporto
italiano sbarcando a Istanbul. Il comandante mi consigliò, per facilitarci una
visita turistica e un soggiorno più comodo e piacevole, di attraccare al City
port pagando una mazzetta a un funzionario compiacente. Non ebbi fastidi, anzi,
facemmo subito un’ottima cena in uno dei migliori ristoranti nelle vicinanze,
accompagnati da suonatori tipici, come se fosse ancora il secolo scorso, ai
tempi del film di Peter Ustinov con Maximilian Schell: che
intendeva rubare il famoso preziosissimo pugnale custodito nel palazzo di
Topkapi.
Nella
notte, cattiva digestione turca, mi ricapita, identico, il “Sogno turco”:
Sogno turco
12 maggio 2021
Questa mattina sono
stato svegliato, nel mezzo di un sogno intricato, dalle parole di mia moglie
Joanni che stava sognando e parlando ad alta voce. Il mio sogno interrotto era
così, ve lo narro come un racconto:
Kemal, nome fittizio,
si sveglierà alle 2:17, si alzerà, inghiottirà una compressa di melatonina e
tornerà a letto. Tre ore e mezza dopo, esattamente alle 5:47, sarà svegliato
dalle parole della moglie Rihem che parla nel sonno. Lascerà che continui a
sognare, curioso di ascoltare il racconto di quello che a lui parrebbe un
incubo. Lui le racconterà il suo, appena interrotto dal forzato risveglio.
Anche Rihem è un nome fittizio. Il sogno di Kemal è molto vero. Non aspettiamo
il risveglio di Rihem per ascoltarlo. Ce lo svela lo stesso Kemal:
«Ricordo tutto,
purtroppo, di questo sogno, parlarne mi fa soffrire perché rivedo tutto il
sangue, i corpi dei morti… Ma questa è la fine, la strage. Tutto inizia con una
mia storia d’amore con un’amica conosciuta per caso su un vaporetto che
traghetta due punti opposti del Bosforo, Kadıköy nella parte asiatica e Beşiktaş
nella parte europea. Ero con il mio amico simpatico, il professor Güçlü Aslan
Kurt, che insegnava all’università e, come tutti, si è dovuto adeguare al
regime di Erdogan. Lui, di natura scherzosa, ora è molto cambiato. Anche lui
risente del momento triste di cui non vediamo la fine. A quel tempo, prima del
colpo di stato, era ancora allegro e fu lui che attaccò discorso con quella
bella sconosciuta. Iniziò fingendoci turisti americani e biascicando un ottimo
inglese, immaginandola una studentessa – aveva in grembo due libri – le chiese
informazioni sulla nostra destinazione, il punto di approdo. Le chiese,
parlando a raffica, se là c’erano dei bei punti di ritrovo e un buon
ristorante. Voleva farsi interessante e le faceva capire che disponevamo di ricche
carte American Express. Anch’io m’intromisi, quando mi accorsi che la ritrosia
della ragazza stava per essere vinta dalla curiosità. Pure lei aveva cominciato
a farci qualche domanda. Il professor Kurt si finse il giocatore di football
americano Andrew Luck, nel ruolo di quarterback per gli Indianapolis Colts
della National Football League. Intuii un suo interesse sempre stato celato per
quel lontano mondo, che seguiva dagli articoli di Internet. Presi l’iniziativa
e la invitai a pranzo io, la ragazza. Kurt capì che la ragazza m’interessava e
così si ritirò dicendo che doveva rientrare nel nostro albergo e che mi avrebbe
aspettato là per la cena, Lui si sarebbe arrangiato per il pranzo con un panino
al kebab al volo, per strada. Capii che piacevo alla ragazza perché, da come si
erano messe le cose, accettò con malcelato entusiasmo. Sino a quando fummo a
terra, la ragazza parlò solo con me, e Kurt si mise a guardare il panorama,
scattando foto con il suo cellulare, che era uno dei primi smartphone decenti
per le foto, un Nokia Lumia 1020: la sua fotocamera arrivava ad avere 41
megapixel. Fiero di farci vedere le sue prede fotografiche, appena a terra ce
le mostrò: banali foto cartolina ma anche un paio di buone foto di noi due che
ridevamo conversando tra noi. La ragazza, dalla quale avevo carpito il nome,
Tan, che significa Aurora, volle assolutamente le due foto e Kurt si diede da
fare per trasferirgliele sul suo cellulare. Anch’io le volli e Kurt accontentò
anche me.
Più tardi ebbi da lei
anche di più, il pranzo insieme, durante il quale mi svelai come il modesto
ragazzo turco che viveva nella parte asiatica e che rimorchiava le ragazze sul
traghetto. A quest’ammissione, Tan mi guardò con benevolenza perché era ormai
mia nel cuore. Aveva scoperto, dai miei sguardi dolci, il ragazzo buono e
onesto che ero. Mi disse che non credeva che ‘rimorchiassi’ le ragazze e, anzi,
insinuò che con esse non avevo molta fortuna perché le sembravo ‘molto
imbranato’. Le dissi che non ero così, che ne avevo avute molte, un po’ più di
due dita di una mano. Con la terza solo un bacetto, ma piccolo piccolo, in
punta di labbra. La feci ridere, non smetteva più, e le chiesi se lei fosse
fidanzata. Lei disse no, lo era stata, ma si erano lasciati e non voleva
parlare di lui, era una storia triste. Le proposi di metterci insieme, l’avrei
sempre fatta ridere, era una ferma promessa. Lei disse: “Perché no? Possiamo
provare… “. Le presi la mano al di là del tavolo e, guardandola negli occhi, le
pronunciai questa dichiarazione: “Sarai la mia donna.”. Lei, distogliendo lo
sguardo modestamente verso il basso, ma con un largo sorriso, disse
semplicemente: “OK!!!”. Era fatta! Pagai e ci alzammo mano nella mano, senza
nessuna direzione. Camminando così a vuoto, io gongolando, lei agitando la
gonna con la mano e, improvvisando un balletto coordinato con i miei passi, mi
guardava, sorrideva e poi abbassava leggermente lo sguardo in quello stesso
modo di quando mi disse “OK!!!”. Era davvero una ragazza amabile e mi confermai
internamente nel mio patto di prima. Sapete di quando ci si sporge dal pontile
o dal trampolino e si sta per tuffarsi? Mi sporsi e mi lanciai perdutamente. Un
grande amore cominciò così. In un piccolo parco che consisteva in due alberi e
una sola panchina, tutta per noi, che non avevamo nessun bisogno di un panorama
per essere romantici. Vi passammo tutto il pomeriggio, lì seduti, aspettando
che non passasse nessuno per abbracciarci e baciarci. In pubblico non si può,
ma ce ne siamo fregati!
Il sogno fa un salto,
va avanti sino ai giorni nostri di dopo la restaurazione di Erdogan e del suo
regime duro. Internet è limitata e controllata, le libertà personali e di
associazione quasi azzerate, comunque tutto è sotto l’osservazione del regime
repressivo. Nel sogno ero di nuovo in un ristorante, sotto le stelle, questa
volta, con le candele sul nostro tavolo, forse era il nostro anniversario, e
Tan mi sorrideva, dall’alto dei nostri già numerosi anni di matrimonio. Non era
un alto traguardo, erano solo cinque, gli anni. Da qualche parte, presso una
studentessa che faceva da baby-sitter, c’era la nostra piccola treenne Yıldız,
una piccola stella che illuminava anche quella nostra serata. Era presente,
anche se distante, il terzo incomodo che non ci guastava il godimento di stare
insieme, ma completava una trinità che presto si sarebbe allargata. Speravo in
un maschio, ma era ancora presto per saperne il sesso. Il nostro quinto
anniversario celebrava il recente test di gravidanza positivo. Per fortuna, i
nostri tamponi e test sierologici per il COVID-19 erano ancora sempre negativi.
Tan, quando si avvicinava il cameriere, calzava rapidamente la sua mascherina
FFP2 e così la imitavo anch’io, per poi togliercela entrambi per mangiare
oppure mentre conversavamo tra noi, senza altre presenze vicine. Un
anniversario triste? Meno di quello del 2020, passato in casa. Allora eravamo
in un lockdown stretto, molto più severo che altrove. Sappiamo che il virus
circola ancora e manteniamo abitudini molto prudenti, ma ci apriamo un minimo
alla vita e festeggiamo, con una punta di amarezza al pensiero del pericolo che
corriamo e ai morti che non sono più con noi. La maledetta polmonite e le altre
numerose cause di morte, che non smettono nella pandemia, ci avevano portato
via cari amici e parenti. Sì, persino il caro Kurt, il nostro amico Güçlü
Aslan. Lui, al quale dovevamo il nostro fortunato incontro, era morto solo,
intubato, dopo aver ricevuto un’inutile trasfusione completa del sangue. Ogni
tentativo di salvarlo è stato inutile. Che pena ripensarlo! È un pensiero e un
discorso che evitiamo di farci. Tra noi, lo rimuoviamo, ma ciascuno di noi
ripensa spesso a lui e soffriamo in modo solitario, mentre per il resto ci
comunichiamo tutto, anche i sogni.
Cara Rihem, non essere
gelosa se ti racconto questo sogno di oggi, non essere gelosa di Tan, è solo
una presenza del mio inconscio, non è reale. Forse è, invece, una proiezione
dell’immagine che io ho di te. Vorrei ora arrivare al nocciolo del sogno, alla
sua parte dura e drammatica, che finirà tragicamente.
Tan se ne esce,
cambiando improvvisamente discorso, con il racconto di ciò che le era capitato
quella mattinata. Aveva incontrato una donna sconosciuta che aveva attaccato
bottone su futili argomenti ed era arrivata, capendo che si poteva fidare, a esprimere
timidi giudizi sulla situazione presente. Tan l’aveva assecondata e si era
sbilanciata con assensi dei segni muti del corpo sincronizzati con alcuni punti
del discorso della donna. Alla fine di questo colloquio, la donna le aveva
detto, parlando con i denti stretti, alzando leggermente il volume della voce:
“Allora ci vediamo alla preghiera…” e poi, sussurrando: “Al Serefiye Sarnici,
alle ventuno di domani.”.
Tan: “Il Serefiye
Sarnici è chiuso temporaneamente, e la cosa mi ha insospettito. Sono curiosa,
vorrei indagare. Ci andiamo, domani? Bisognerà farlo con circospezione.”. Io le
dissi: “Può essere molto pericoloso. Non ne parlare con nessuno. Ci andrò io,
da solo, domani.” Tan insistette per non farmi andare da solo, in fondo era
curiosa quanto me, ma io, protettivo, m’imposi dicendole: “Non discutiamone
più, è deciso! Andrò io solo, e tu resterai a casa.” In alcuni casi, è meglio
dimezzare il rischio per una famiglia… Il patriarca può venir comodo. Mi scusai
della prevaricazione, ma solo con me stesso. Rihem, con te non avrei potuto
farlo. Tu ed io decidiamo tutto insieme e condividiamo le conseguenze di tutte
le nostre scelte comuni. Ma in sogno…
Il giorno dopo ero
molto preoccupato per quello che avrebbe potuto succedermi, mi sarei messo in
una situazione difficile? Avrei compromesso la nostra situazione futura con un
mio possibile arresto? D’altra parte, sentivo la responsabilità, diciamo così,
“civica”, di fare qualcosa per unirmi ad altri per resistere, forse lottare,
dare un senso alla nostra attuale sofferenza aprendomi alla speranza della fine
del regime oppressivo e alla luce di una libertà che era per me solo un ricordo
di prima del 2016. Eh, già, sono già passati quasi sei anni. Come sono stati lunghi!
Quanta gente è sparita. Non si vedono più in giro e non si viene a saperne la
fine. Di molti arresti non se n’è venuto a sapere. Girano voci che siano
arrivate delle ambulanze e che molti siano stati ricoverati per covid, ma
troppi non si sono più rivisti! Così, sempre guardando all’orologio, compaio
davanti all’ingresso del Serefiye Sarnici soltanto alle ventuno precise e mi
trovo con la donna dell’incontro di Tan di ieri mattina. Questa, camminandomi
vicino, mi allunga in silenzio un biglietto con un indirizzo e la scritta:
“Vieni subito!”.
Senza pensarci troppo,
mi dirigo là, dove il portone era socchiuso e m’inoltro nel palazzo, nelle cui
scale la luce era spenta. Improvvisamente, al mio ingresso, la luce si accende,
si apre una porta e un uomo mi fa cenno di entrare e seguirlo. Lì, in una
stanza, c’erano già sei persone, tutti uomini. La donna non c’era. Senza perder
tempo, uno di questi mi disse, alzandosi: “Se sei qui ora, è perché in qualche
modo senti, come noi, che si deve far qualcosa per contrastare il regime. Non
avere paura, noi vi conosciamo bene, meglio di quanto non faccia il regime.
Crediamo di poterci fidare. Siete stati amici di Kurt, se piacevate a lui, fate
pure al caso nostro. Poi, vi seguiamo da quando lui ci ha passato le consegne,
una di quelle consegne siete voi. Il nostro esame lo avete superato, perciò
siete stati cooptati. Siamo un considerevole numero di ‘associati’ e aspettiamo
la vostra risposta affermativa. In cambio, avrete la nostra assidua e continua
protezione.”. Io, considerando che forse un diniego non mi sarebbe stato
possibile perché ci sarebbero state conseguenze, risposi sì anche a nome di mia
moglie Tan. Mi avvisarono che sarei stato convocato a una nuova adunanza in un
altro luogo segreto, mai lo stesso.
Passarono giorni senza
storia, io e Tan sempre in attesa di una convocazione, sino a che ricevemmo una
telefonata misteriosa di una donna che con voce affranta ci comunicava un
indirizzo e diceva: “Subito!”. Ci vestiamo in fretta e furia, prendiamo la nostra
auto, ci dirigiamo là e parcheggiamo un po’ distante dall’indirizzo, entriamo
nel portone, nel buio totale (l’interruttore segnalava che nel palazzo mancava
la corrente) troviamo una porta aperta, entriamo e, alla luce della torcia dei
nostri smartphone, ci appare uno scenario sanguinoso e di morte. Cadaveri di
persone per terra, appoggiati ai mobili dell’appartamento, penzolanti dalle
sedie, sdraiati scompostamente sui divani. Solo nella stanza da letto non c’era
nessuno, solo una bimba che piangeva in un lettino con le sponde. Poteva avere
circa tre anni come la nostra Yıldız, questa bimba per noi senza nome era
sicuramente della casa. Tan, che alla vista della strage, scrutando i volti dei
cadaveri crivellati da una mitraglietta, aveva vomitato, davanti alla bambina
si ripulì in fretta e la prese in braccio. Io controllai se ci fosse qualche
sopravvissuto. Sperai di trovarne almeno uno e la mia ricerca era ossessiva,
smuovevo i cadaveri scrollandoli senza pietà e ripetevo spesso la sola parola
“Perché?”. L’istinto di conservazione mi fece balenare una sensazione di
pericolo: dovevamo andarcene subito! Prima volli scattare le foto di
quell’orrenda strage con il flash, dopo aver chiuso rapidamente anche le
persiane rimaste aperte, per non far vedere i lampi del flash dall’esterno.
Tan, che mi vedeva frenetico in quel macabro reportage, mi scrollava pregandomi
di fare presto, non di smettere, ma di fare in fretta. Era pericolosissimo
restare. In questo punto il sogno-incubo si è interrotto, con una fine tragica,
la peggiore. Non ho sensazioni positive, eppure il fatto positivo è che noi due
eravamo ancora vivi, noi quattro, con la nuova bambina, e cinque con
quell’altro in arrivo.».
Rihem: «Davvero un bel
sogno, Bravo!».
Il sogno è finito
così, con la risposta rassicurante di Rihem, moglie turca sottomessa al regime
di Erdogan, che non farà parola a nessuno dei deliri onirici del marito. Così
come io non lo raccontai a Joanni, il mio “Sogno turco”, per non rovinarle la
visita di Istanbul.
Quel
giorno visitammo il Topkapi, ma tutto quello sfavillio di tesori e di gemme
enormi ci diede alla testa e guadagnammo velocemente l’uscita, per fare qualche
acquisto di spezie in un mercato tradizionale, sopravvissuto, immagino, solo
per i turisti. L’architettura in genere era moderna, a parte i monumenti
conosciuti dove ti accompagnano le guide, una professione che scarseggia, con
il timore dei turisti per il regime e per il covid. C’erano stati 10,9 milioni
di casi totali e più di 85.700 morti. In meno di un mese, però, c’erano stati
più di 900.000 casi, questo gennaio 2022. Non era una situazione da scherzarci.
L’equipaggio restò a bordo in quarantena, noi, con un doppio tampone rapido
negativo, ce la cavammo e, con i nostri Green Pass internazionali, potemmo
accedere praticamente ovunque era permesso dalla prudenza, prima di tutto, poi
dalla Legge. Il rispetto delle regole classiche come le conosciamo noi aveva
varianti, ma le donne, almeno, portavano tutte quante le mascherine,
specialmente di colore nero.
Il
panorama antropizzato era tornato islamico e non trovammo neppure un’edicola
con giornali europei. Mi assicurano che Erdogan si è molto impegnato in alcune
importanti opere ma che ha avuto anche grandi resistenze per voler abbattere
600 alberi per un suo progetto che la gente non vuole. Ogni tanto capita
qualche attentato di cui si viene a risapere anche in occidente, così come di
atti di resistenza eroica da parte di detenuti politici che si lasciano morire
nell’indifferenza del mondo. Io credo invece che tanto dolore lasci un segno
più tangibile di tutto il cemento colato dall’edilizia senza freni del
dittatore e prevedo che, come in altri precedenti storici, anche lui farà una
brutta fine. Dopo una visita senza amore alla Basilica
di Santa Sofia di Costantinopoli, una città che è stata la
capitale di quattro grandi imperi, l’Impero Romano di oriente, l’impero
bizantino, l’impero latino e l’impero ottomano. Come Istanbul, il cui nome
significa "verso la Città" o "nella Città". - in
questo modo i Greci si riferivano alla "Città delle Città" – è dal
1930 capitale della Repubblica turca. Era conosciuta inizialmente come Bisanzio
e poi come Costantinopoli per moltissimo tempo. È Istanbul solo dal 1930. La
Basilica di Santa Sofia è stata sempre dedicata alla Sapienza di Dio, sia come
chiesa cristiana sia come moschea. Kemal Atatürk la volle trasformare in museo
ma dal 2020 è tornata per volere di Erdogan una moschea, e nel 24 luglio vi ha
recitato la prima preghiera pubblica islamica. Mia moglie Joanni dovette
indossare una speciale tunica e dovemmo entrare senza le scarpe, ma in orari
lontani da quelli di preghiera.
Rientrati
a bordo, dicemmo che volevamo ripartire presto, appena possibile, attraversando
il Mar Nero, dopo aver sfilato tra la riva occidentale e quella asiatica di
Istanbul, che con i suoi grattacieli forma una doppia skyline molto suggestiva
ma per noi invivibile.
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